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ORA DI DOTTRINA / 2 - IL SUPPLEMENTO

"In nome di Dio": quel mancato preambolo nella Costituzione

Nell'ultima seduta dell'Assemblea Costituente, il 22 dicembre 1947, Giorgio La Pira propose di inserire un preambolo che riconoscesse Dio come principio di unità del popolo italiano. Vinse invece la linea Togliatti, l'idea che Dio fosse un argomento divisivo. Si mettevano così le basi per un totalitarismo anche peggiore della dittatura da cui si usciva.

Catechismo 12_12_2021
La firma della Costituzione italiana

Era il 22 dicembre, quando Giorgio La Pira, durante l’ultima Assemblea Plenaria della Costituente del 1947, propose (vedi qui e qui) di inserire nel testo costituzionale, giunto ormai alla sua redazione finale, «una brevissima formula di natura spirituale, una formula che dicesse: “In nome di Dio, il popolo italiano si dà la presente Costituzione”». L’intento dell’iniziativa di La Pira, che il presidente della Costituente Umberto Terracini aveva invano cercato preventivamente di bloccare, era di offrire quel «punto di convergenza per ogni creatura», quella «realtà superiore» che si libri al di sopra di ogni idea partitica, e per questo capace di ancorare in un’unità superiore, per certi versi sottratta all’instabilità delle cose del mondo, la “nuova Italia”, uscita dalla guerra con le ossa rotte e con una lacerante divisione interna.

Perché richiamare quel dibattito, oltre settant’anni dopo? Nell’articolo di domenica scorsa (vedi qui) si era visto come la nostra ragione possa raggiungere con certezza la conoscenza dell’esistenza di Dio. Il punto è volerlo; o meglio, evitare di non volerlo. E non si deve intendere questo inciso semplicemente come disposizione della singola persona, ma come condizione dell’intero percorso della ragione umana, che deve prestare attenzione a non compiere nella sua ricerca quei passi falsi che la fanno finire nelle secche dei vari riduzionismi.

La domanda ritorna: perché richiamare il dibattito dell’Assemblea Costituente? Questo punto era chiaro nelle ragioni date da La Pira, ma diamo uno sguardo agli altri interventi. Palmiro Togliatti, ribattendo a La Pira, inaugurava la via maestra del laicismo all’italiana, che può essere in sintesi riassunta con il fatto che Dio sia divisivo: «Se dovessimo aprire il dibattito sulla proposta dell’onorevole La Pira, non ci troveremmo uniti. Questo è un fatto certo. Anzi: scaveremmo tra di noi quel solco ideologico, che a proposito di altre questioni abbiamo voluto e saputo evitare».
Il capo indiscusso del Partito Comunista Italiano faceva presente al futuro sindaco di Firenze che «la sua formula si richiama a determinate ideologie, ne respinge altre. Non so nemmeno se in campo cattolico una posizione, la quale faccia della fede qualcosa di collettivo e non soltanto personale, possa essere accolta da tutti [...]. Anche nel suo campo, quindi, l’onorevole La Pira potrebbe non trovare tutti i consensi che vorrebbe».

Togliatti mostrava una certa libertà di invadere il campo altrui; la sua era, a buon conto, una strategia lungimirante se, a poco più di mezzo secolo, è stato accolto “pacificamente” anche in ambito cattolico il duplice errore di Togliatti: la fede è una questione personale, l’affermazione dell’esistenza di Dio è questione di “pura” fede. Dunque, Dio ha a che fare con la mera sfera personale, un po’ come il colore della carta da parati, o la scelta se mettere il parmigiano o il pecorino sulla pasta. Anche l’intervento dell’on. Concetto Marchesi, sempre di area comunista, sottolineava che Dio non può essere inserito «in un articolo di Costituzione, che riguarda tutti i cittadini, quelli che credono, quelli che non credono, quelli che crederanno» ed esortava perciò a fare in modo che la futura legislazione non iniziasse «con una parola grande che susciti il dissidio dei piccoli mortali».

La convinzione che Dio sia “divisivo” riposa sulla persuasione che la sua esistenza non sia universalmente raggiungibile dalla ragione umana, ma rientri nell’ambito di una fede che tanto assomiglia al sentimento personale. La Pira purtroppo, dopo un nuovo tentativo di riproporre il possibile preambolo, aveva infine deciso di ritirare la proposta, accettando il perimetro del discorso imposto da Togliatti: «Francamente, se tutto questo dovesse produrre la scissione nell’Assemblea, io per conto mio non posso dire che questo: che ho compiuto secondo la mia coscienza il gesto che dovevo compiere».

Il punto è che sacrificare l’affermazione di Dio, come vincolo supremo del popolo, avrebbe aperto le porte ad un totalitarismo ben peggiore della dittatura da cui si era da poco usciti alla fine degli anni Quaranta. Che cosa infatti avrebbe unito il popolo italiano? Le ideologie avevano mostrato il loro vero volto; Dio era ritenuto divisivo. Si gettavano allora le basi per una nuova super-ideologia, la quale, come aveva lucidamente compreso Augusto Del Noce, avrebbe avuto il volto del “vero dio”, capace di unire trasversalmente gli appartenenti di qualsiasi corrente politica. Attorno a cosa gli uomini si sarebbero rapidamente affratellati?

Era ed è soprattutto la tecnoscienza ad avere le carte in regola per svolgere questo ruolo unificatore, per divenire questo idolo cui sacrificare ogni altro valore. La direzione tracciata dalle Critiche di Kant poteva finalmente giungere al dunque. Alla certezza della conoscenza scientifica, contrapposta a quella tremolante e divisiva della teologia naturale, si associava anche lo sviluppo tecnologico, capace di assicurare prosperità e benessere. La città dell’opulenza poteva finalmente essere riedificata; gli uomini avrebbero parlato tutti l’unica lingua di legno (cf. Gn 11, 1) della tecnoscienza, si sarebbero messi al lavoro per costruire la loro torre, una nuova “trascendenza dal basso”. Del Noce seppe vedere che proprio l’irreligione, esito di un itinerario filosofico che aveva rifiutato l’autentica trascendenza e abolito la metafisica, avrebbe causato la società della tecnocrazia, del diritto senza limiti, del relativismo. Il che avrebbe prima o poi comportato l’involuzione totalitaria delle democrazie moderne, non appena una certa dose di paura avrebbe condotto gli uomini dove non avrebbero voluto.

Siamo a fine corsa. La “morte di Dio” e della metafisica stanno infine svelando l’inganno della promessa liberazione dell’uomo, perché, in ultima analisi, lo sbriciolamento della verità metafisica ed etica ha aperto gli spazi al criterio “supremo” della maggioranza; e quest’ultimo, come faceva notare ancora una volta Del Noce, «si risolve nel dominio degli eterodiretti», e dunque nel dominio di quanti hanno abbastanza forza ed abilità per convincere e persuadere. Di fronte ad una siffatta “maggioranza”, gli uomini finiscono per adeguarsi, senza nemmeno aver più presente la nobiltà della propria natura, dal momento che Dio creatore è stato tolto di mezzo.

Cosa resta? Rimasto orfano di Dio, senza più una coscienza adeguata della propria vocazione, l’uomo ha assolutamente bisogno di identificarsi con i suoi pari, di accettare di obbedire a tutto, di «farsi mezzo» (Del Noce), accettando qualunque cosa questa “maggioranza” richieda. E lo fa per quella paura che nasce dall’istinto dell’autoconservazione: paura di morire, di soffrire, di ammalarsi, di restare solo. Paura del passato, del presente e del futuro. Paura che l’uomo inizia a sentire solo dopo il peccato originale, proprio per il fatto di nascondersi a Dio.

Chi dunque riesce ad utilizzare questa paura, ha in mano gli uomini. Ma il gioco funziona finché si riesce a tenere ben lontana la voce di Dio, che cerca l’uomo caduto; finché si riesce a impedirgli di alzare lo sguardo verso quel punto esterno al mondo, che governa il mondo; finché si riesce a tenere nascosto che è proprio Dio il principio della vera unità degli uomini. Togliatti l’aveva ben capito.