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ORA DI DOTTRINA / 1 - IL SUPPLEMENTO

La ragione può conoscere l'esistenza di Dio

Per il Magistero della Chiesa non vi è alcun dubbio: la ragione umana può conoscere con certezza l’esistenza di un unico Dio creatore. Una chiarezza di giudizio che noi cristiani abbiamo perso, con gravi equivoci nel rapporto con gli altri.

Catechismo 05_12_2021
Michelangelo, Cappella Sistina - Creazione di Adamo

Per il Magistero della Chiesa non vi è alcun dubbio: la ragione umana può conoscere con certezza l’esistenza di un unico Dio creatore. La Chiesa è sufficientemente realista da non affermare che questo di fatto avvenga sempre, perché vi sono molti fattori che possono sviare questa ricerca e persino impedirne il primo passo, ossia la volontà di ricercare il fondamento dell’essere. Eppure la ragione è capace di Dio, è in grado di afferrarne con certezza l’esistenza.

«Se qualcuno dirà che col lume della ragione naturale non si può conoscere con certezza Dio uno e vero creatore e Signore nostro a partire dalle cose create: sia anatema» (Denz. 1806): è questa l’affermazione inequivocabile del Concilio Vaticano I. Dovremmo chiederci che cosa ne abbiamo fatto. Perché anche noi cattolici siamo divenuti agnostici, di fatto o di principio. Di fatto, allorché, di solito di fronte ad un lutto, ce ne usciamo con espressioni del tipo: “Speriamo che oltre la morte ci sia qualcosa”; o magari, al cospetto di una catastrofe, ci infiliamo in ragionamenti che ci portano a dubitare dell’esistenza di Dio, che ci appare incompatibile con la presenza del male.

A preoccupare maggiormente è però un agnosticismo di principio, che suona più o meno così: la questione di Dio riguarda la sfera personale, ha a che fare con la fede, intesa evidentemente come una scelta arbitraria del soggetto, come la decisione di mangiare la pizza o la parmigiana; ergo, non si può pretendere di porre Dio come fondamento del vivere civile. Io ci credo, l’altro no, così come io amo leggere libri e l’altro andare al cinema: dobbiamo trovare perciò un terreno comune che sia “neutrale”, o, per dirla con il linguaggio in voga, che sia “laico”.

Un’impostazione di questo tipo può apparire di primo acchito come ragionevole, prudente, rispettosa dell’altro, capace di affratellare gli uomini attorno a dei principi comuni e non divisivi; ma a ben vedere è il principio della più grande tirannia, il terreno nel quale germoglia e cresce la “volontà di potenza”, come la storia recente mostra ad abundantiam. E soprattutto non ha nulla di ragionevole, nonostante le apparenze.

Ci siamo abituati da tempo a ritenere che la conoscenza umana sia rinchiusa nei fenomeni e che pertanto ogni tentativo di cercare un fondamento della realtà finisca inesorabilmente nel regno dell’arbitrario. Kant docuit. Se l’uomo vuole essere oggettivo, se vuole che le proprie conclusioni possano avere una pretesa di universalità, allora deve restare nel mondo fenomenico, deve avvalersi del metodo “scientifico”. Al di là, c’è solo la fede, che va dove la porta il cuore...

In verità, quella dell’autolimitazione della ragione nell’ambito del fenomeno non è un’evidenza, ma una decisione, una scelta che trova la sua genesi storica in epoca piuttosto recente; un volo e non un cogito. Non si sta negando che la conoscenza dell’uomo sia ancorata alla realtà sensibile; si sta semplicemente dicendo che è proprio l’osservazione della realtà sensibile nel suo insieme a far sorgere la domanda relativa al proprio fondamento. E questa domanda non può essere soffocata in nome della “ragion scientifica”.

Più l’uomo si addentra in modo spassionato nell’osservazione del mondo sensibile e più si rende conto della necessità di ricercare un fondamento dei fenomeni che si riscontrano “al di là” del medesimo mondo fenomenico. Come accade nelle indagini, allorché si cerca il movente a monte di un determinato reato. L’indagine non può dirsi conclusa con il ritrovamento dell’arma del delitto, del luogo, dei complici: occorre ricercare la ragione a monte di tutti questi elementi “fenomenici”.

L’avanzare della ricerca astrofisica ha condotto alla certezza che il nostro mondo, l’universo, ha avuto un inizio e va verso una fine, facendo crollare qualsiasi tentativo filosofico o religioso di divinizzazione del mondo o della natura. L’eternità non è un attributo proprio del mondo; il mondo non è l’essere, ma ha l’essere; dunque, rimane una necessità logica ritenere che chi non è l’essere per sé abbia l’essere per partecipazione. Non si tratta di un ragionamento meramente teorico, perché l’esistenza del nostro mondo, che ha avuto un principio e che corre verso la sua fine, è qualcosa di reale, non di teorico. Pertanto ha realmente ricevuto quell’essere contingente che noi constatiamo da un Principio senza principio, che non può essere appunto solo un’idea; perché un’idea non genera realtà.

La scienza moderna ci mette sotto il naso, con maggiore cognizione di causa di quanto non fosse possibile prima, la constatazione che l’universo non è eterno, che non si auto-fonda, ma che ha bisogno di Altro per essere, come ogni ente che non è l’essere per sé. O, per dirla con San Tommaso d’Aquino, “ogni ente per partecipazione dipende dall’essere per essenza” (Summa Theologiae, I, q. 44, a. 1, ad. 1). È questa la formulazione filosofica più adeguata per fondare la creazione di tutte le cose da Dio. È una conclusione ragionevole, non “confessionale”.

La scienza moderna ci mette davanti ancora un altro dato che mette fuori gioco definitivamente ogni tentativo di affermazione del determinismo e del meccanicismo fisico. La struttura quantistica dell’energia e il principio di indeterminazione nel mondo dei corpuscoli elementari mostrano che il determinismo che appare nel mondo macroscopico non vale per quello microscopico. La struttura profonda del mondo fisico è dominata dalla contingenza e non dalla necessità. Cornelio Fabro (Dio. Introduzione al problema teologico, 2007, 66 e ss.) faceva notare che il processo da A a B, nel mondo microscopico, non è guidato da leggi deterministiche; e lo stesso accade nel mondo biologico, per esempio nella generazione di un nuovo individuo. «Anche qui il comportamento e la distribuzione delle unità operanti (i cromosomi e in essi i geni!) presentano la più decisa variabilità o instabilità cioè “contingenza”, eppure alla fine il risultato si mostra “infallibile”. I processi di moltiplicazione, riduzione ed espulsione delle masse nucleari e quelli di formazione dei cromosomi, sfuggono ad ogni preciso determinismo e ad ogni diretta osservazione: il risultato è però sempre raggiunto, quello cioè di assicurare il corredo ereditario della specie nella fusione del rispettivo apporto paterno e materno».

Detto in altro modo: da A possono procedere solo un certo tipo di fenomeni B (dall’unione di gameti umani, non possono che precedere zigoti umani), ma non in modo univoco, ossia non un solo B, ma una varietà di possibilità B. E che esca proprio quel B non è stabilito da leggi deterministiche. Non è possibile calcolare quale sarà questa precisa combinazione cromosomica.

La contingenza insidia dunque la materia vivente e non vivente potremmo dire nel suo “intimo”. Eppure tale contingenza non produce caos, ma finalità, ordine. Questa è una constatazione fenomenica e ci si potrebbe fermare qui; ma “fermarsi” è appunto scelta, non necessità della ragione. Al contrario, la constatazione di cui sopra rimarrebbe contraddittoria (la contingenza che “produce” finalità) se non fosse ricondotta ad un Principio intelligente ordinatore. Lo scienziato che fa questo passaggio segue semplicemente l’esigenza e la capacità dell’uomo razionale, che si apre all’intelligibilità del reale.

«Per questo – conclude Fabro -, come ha confessato lo stesso Planck, la scienza moderna è profondamente penetrata dall’esigenza di Dio, la cui presenza […] scaturisce ed è invocata dai medesimi [risultati] come il vincolo operante dei fenomeni – che altrimenti sarebbero senza scrittura alcuna e contradditori – anche se tale vincolo sfugge, per definizione, alla scienza». Sfugge alla scienza, ma non alla ragione. A meno che non si decida per puro arbitrio di incatenare quest’ultima.