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I 500 ANNI DELLA RIFORMA

Impossibile camminare con Lutero

In questo 500mo anniversario della Riforma luterana, i cattolici  – soprattutto uomini di Chiesa e teologi – sembra abbiamo scelto di puntare su due aspetti: le sue intenzioni piuttosto che i contenuti dogmatici della Riforma e fare “un tratto di strada insieme”. Ma questo sposa già la prospettiva luterana perché si accettano due importanti presupposti.

Editoriali 19_03_2017

In questo 500mo anniversario della Riforma luterana, i cattolici  – soprattutto uomini di Chiesa e teologi – sembra abbiamo scelto di puntare su due aspetti. Il primo è quello delle intenzioni soggettive di Lutero piuttosto che i contenuti dogmatici della Riforma. Il secondo è di fare comunque “un tratto di strada insieme” indipendentemente dalle questioni dottrinali. A ben vedere, però, ambedue queste sottolineature sposano già la prospettiva luterana, sono interne alla Riforma in quanto ne accettano due importanti presupposti.

E’ evidente che la Riforma deve molto alla soggettività di Lutero, alla sua vicenda interiore, al suo carattere. La sua biografia sia psicologica che spirituale non va messa da parte. Su questo hanno scritto – e giustamente – in molti, da Jacques Maritain a Jean Guitton ad Angela Pellicciari. Però non va nemmeno assolutizzata, facendone l’unico focus.

La tendenza odierna è invece proprio questa, sostenendo che Lutero non voleva una rivoluzione ma una riforma della Chiesa. Fino a ieri la linea cattolica era di dire che la Riforma non è stata una riforma ma una rivoluzione. Ora si dice il contrario. Il cardinale Kasper nel suo ultimo libretto su Lutero edito dalla Morcelliana dice infatti: “Lutero era un uomo desideroso di rinnovamento, non un Riformatore. Con questa istanza evangelica Lutero si poneva nella lunga tradizione dei rinnovatori cattolici che lo avevano preceduto. Si pensi soprattutto a Francesco d’Assisi“.

Sembra che le cose siano poste in questo modo: le intenzioni originarie di Lutero erano buone e legittime, poi la storia ha prodotto ostacoli e intralci di vario genere, causati non da ultima dalla Chiesa cattolica, provocando anche difficoltà di comunicazione come scrive Padre Pani sul numero 4000 de “La Civiltà Cattolica”, sicché se si tolgono di mezzo gli ostacoli e le incomprensioni e se ci si ricollega alle intenzioni originarie di Lutero tutto può essere messo a posto. L’accostamento temerario tra Lutero e San Francesco la dice lunga sugli obiettivi di questa strategia.

Questa impostazione mette in secondo piano gli elementi di contenuto dottrinali della Riforma per incentrarsi sulla buona fede del testimone. Ma un testimone è attendibile non solo per la sua buona fede bensì anche per le verità che dice. La concentrazione sulle intenzioni soggettive di Lutero accoglie già l’impostazione luterana delle cose. La fede, infatti, è sia l’atto del soggetto che crede, sia il contenuto creduto (gli esperti parlano di fides qua e di fides quae). Ora, per il cattolico le due cose vanno tenute insieme, ma per il luterano no, vale solo la prima. La fede nel senso luterano del termine è un “fidarsi”, è una fede fiduciale in Cristo. Padre Coggi OP, nel suo ultimo libro su Lutero edito dallo Studio Domenicano di Bologna, spiega bene che quella di Lutero è una “fede senza dogmi”.

Concentrare l’attenzione solo sulle intenzioni soggettive di Lutero è quindi già un collocarsi nella prospettiva luterana della centralità della coscienza individuale e di una fede senza argomenti.

Anche l’altro aspetto su cui i cattolici insistono in questo cinquecentesimo anniversario presenta queste caratteristiche. “Fare una tratto di strada insieme” significa anteporre la prassi, un comune agire, alla dottrina. E’ difficile fare una simile proposta ai Riformati. Se si vuole fare un tratto di strada insieme nonostante le diversità dottrinali ci si dovrebbe rifare alla legge morale naturale, che però Lutero nega, in quanto frutto di una ragione “meretrice”. Non è difficile riscontrare, nel dialogo ecumenico, una notevole difficoltà a trovare accordi pratici per esempio sulle questioni di bioetica e biopolitica e sui cosiddetti “nuovi diritti”, il che dimostra come sia impossibile “camminare insieme” senza i dovuti chiarimenti dottrinali. 

In ogni caso, questa priorità della prassi sulla dottrina è una posizione tipicamente luterana. Il Monaco infatti era interessato non a conoscere ma a sentirsi in grazia, come acutamente fanno notare tanti suoi interpreti da Maritain a Coggi. Il suo interesse non era per Cristo in sé, ma per Cristo per lui. Egli mirava a fare esperienza della salvezza di Cristo, non a conoscerlo. Il suo intento, in altri termini, era eminentemente pratico. Anche tra i cattolici oggi si pensa alla fede più come esperienza che come conoscenza e viene da chiedersi se non sia per effetto dell’influenza protestante. La verità di Cristo viene in secondo piano per Lutero, che separa il Cristo della fede dal Cristo della storia. La demitizzazione del Vangelo potrebbe diventare anche totale, come cercherà di fare Rudolf Bultmann, ma ciò non intaccherebbe la fede, che non ha bisogno di argomenti. 

Come motivare la scelta di queste due ottiche così consenzienti nei confronti della Riforma se non come segno di una disponibilità perfino eccessiva ad affrettare i tempi su molte questioni ecumeniche spinose?