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PRIMARIE IN USA

Il voto "etnico" sulla corsa alla Casa Bianca

Il calendario delle primarie per designare gli sfidanti che l’8 novembre si contenderanno la Casa Bianca è ancora provvisorio (dovrebbero iniziare il 1° febbraio in Iowa), ma il clima politico è già rovente. Lo ha dimostrato il primo confronto televisivo tra i candidati repubblicani organizzato  il 6 agosto scorso e soprattutto lo strascico di polemiche seguito al battibecco tra il misogino Donald Trump e la giornalista Megyn Kelly.

Esteri 05_09_2015
Il candidato repubblicano Donald Trump

Il calendario delle primarie per designare gli sfidanti che l’8 novembre si contenderanno la Casa Bianca è ancora provvisorio (dovrebbero iniziare il 1° febbraio in Iowa), ma il clima politico è già rovente. Lo ha dimostrato il primo confronto televisivo tra i candidati repubblicani organizzato a Cleveland, Ohio, da Fox News il 6 agosto e soprattutto lo strascico di polemiche seguito al battibecco tra il misogino Donald Trump e la giornalista Megyn Kelly. Negli Stati Uniti, infatti, Trump è l’uomo del momento. Di tutti i candidati in lizza (per ora i Repubblicani sono 17 e i Democratici 5) è il più improbabile, eppure domina i sondaggi forte di un’arma nemmeno segreta: dice apertamente tutto ciò che la gente vorrebbe sentirsi dire da un politico, ma che un politico non dirà mai. È populismo della lega più volgare, certo, ma il populismo gode di un vantaggio enorme: piace al popolo. 

Perché? Perché dice pessimamente cose verissime. Trump in realtà parla di una e di una sola cosa soltanto, come evidenzia il suo sito fatto di un’unica proposta politica, la riforma dell’immigrazione (clicca qui), ma questo per il momento paga. La questione dell’immigrazione è infatti anche negli Stati Uniti un problema enorme e Trump sa che finché gli altri aspiranti alla Casa Bianca nasconderanno la testa sotto la sabbia lui continuerà a volare alto. Ora, Trump sa che il Partito Repubblicano non gli consentirà mai di ottenere la nomination per le elezioni presidenziali tanto quanto gli elettori americani sanno che un candidato fanaticamente single-issue come lui non conquisterà mai la presidenza, neppure se decidesse di sbattere la porta e correre da indipendente. Ma sia Trump sia gli elettori sanno che il risultato politico di quest’azione di disturbo potrebbe essere un altro, e la notizia non è affatto buona. Potrebbe infatti essere l’etnicizzazione radicale del voto politico.

Il quadro di fondo è questo. Otto anni fa Barack Obama divenne il primo presidente meticcio della storia degli Stati Uniti portando in dote al Partito Democratico un surplus di circa 9 milioni di voti “nuovi”: sia ex astensionisti sia ragazzi che per la prima volta avevano l’età legale per votare e che lo fecero prima di avere il tempo di alimentare l’astensionismo; in entrambi i casi erano per la stragrande maggioranza non bianchi, soprattutto neri. Quattro anni dopo Obama ha rivinto le elezioni puntando soprattutto sul voto “ispanico”. Da più di un decennio il Partito Repubblicano cerca di fare i conti con la demografia e la questione razziale, conscio del fatto che se diventerà – o verrà percepito – come “il partito dei bianchi” avrà le ore contate per ragioni tanto culturali quanto demografiche. Oggi dunque il problema è più scottante che mai, anche perché s’intreccia al vespaio dell’immigrazione clandestina e ai suoi indotti: l’assistenzialismo e la criminalità.

I Repubblicani in lizza per la Casa Bianca finora mostratisi più aperturisti sull’immigrazione, il vero nodo della questione “ispanica”, sono l’ex governatore della Florida Jeb Bush (che ha sposato una messicana naturalizzata statunitense) e Marco Rubio, senatore di quello stesso Stato. Ma il problema resta enorme. E soprattutto porta lo scompiglio in campo conservatore, tanto da iniziare a invertire la tendenza. Alcuni si chiedono, infatti, se non sia ora di smettere di corteggiare quelle minoranze etniche che tanto continueranno ad appoggiare i Democratici. Fra costoro c’è la voce di un opinionista autorevole qual è Cliff Kincaid, direttore del Centro per il giornalismo investigativo di Accuracy in Media, un watchdog che dal 1969 tiene sotto controllo e alla bisogna sbugiarda senza mezzi termini la stampa liberal. Snocciola sondaggi (clicca qui), Kincaid, riportando che i latinos statunitensi si definiscono Democratici per il 57%, dato aggravato dal fatto che solo il 18% di loro si dichiara Repubblicano, e aggiungendo – in base a un altro sondaggio - che, a metà del secondo mandato Obama, il 59% dell’elettorato americano di origine ispanica si è detto soddisfatto della Casa Bianca. Questo, spiega Kincaid, «dimostra che gl’ispanici sono praticamente proprietà del Partito Democratico» e che «in fondo il successo del Partito Democratico alle elezioni presidenziali dipende dal convincere i Repubblicani a continuare a rivolgere appelli senza speranza agl’ispanici, abbandonando la propria base di elettori bianchi, conservatori e cristiani». Perché, dunque, conclude Kincaid non trasformare la propria debolezza in forza e rivendicare una “identità bianca” per il Partito Repubblicano proprio come, senza scandalo, fanno i neri e i latinos mettendo la questione etnica al servizio del Partito Democratico?

È un cortocircuito, ma se accadesse la politica americana rimodellerebbe il proprio vocabolario ideologico sulle equazioni “bianchi uguale Destra” e “neri più latinos uguale Sinistra”; equazioni che, al di là dei sondaggi, non rispecchiano affatto la totalità dei fatti, regalerebbero a Hillary Clinton la presidenza, ma soprattutto inquinerebbero gravemente la battaglia delle idee. A essere maliziosi si direbbe che Trump lo ha capito.