Il Tartaro e quanti si sono macchiati di gravi misfatti
Tra i morti prima del tempo si trovano i bambini morti in fasce, le anime dei suicidi per amore (tristissimo è l’incontro di Enea con Didone) e i guerrieri gloriosi. In mezzo a questi ultimi Enea vede Tideo, Partenopeo d’Arcadia, Adrasto d’Argo (tutti caduti nell’assedio di Tebe cantato nella Tebaide), tanti troiani e Greci caduti nella guerra di Troia. Figlio di Priamo, Deifobo è orribilmente deturpato dalle ferite, se ne vergogna e racconta l’ultima notte della roccaforte di Troia.
La Sibilla concede solo un po’ di tempo ad Enea per parlare con le anime incontrate. Dopodiché indica all’eroe la biforcazione della strada in due sentieri:
quello di destra porta sotto le mura del grande Dite
(è la via per l’Eliso, la nostra); la sinistra avvia al castigo
il traffico dei colpevoli, e conduce all’empio Tartaro.
A sinistra, quindi, appare ad Enea il Tartaro, che in un certo qual modo corrisponde all’Inferno. Si presenta come una grande città, circondata da triplici mura e attorniata dal fiume Flegetonte che con le sue acque infuocate rivolta massi. Una porta enorme con stipiti di acciaio durissimi e indistruttibili vieta l’accesso se non a quanti, già defunti, hanno meritato il giusto castigo. Solo la Sibilla ebbe un tempo la facoltà di accedervi.
A guardia dell’ingresso sta Tisìfone, notte e giorno. Gli dei stessi non potrebbero distruggere quella porta. Gli dei romani, come del resto quelli greci, non hanno nulla a che fare con l’onnipotente Dio cristiano. Poco prima Virgilio aveva del resto scritto che sul Cocito e sulla palude stigia «temono di spergiurare gli dei». Gli stessi dei sembrano sottomessi e subalterni all’Oltremondo, segno questo del terrore che gli antichi vivevano di fronte all’evento della morte e del senso di totale impotenza: non è neppure consentito loro di pregare gli dei, che non possono nulla. Provenienti dal Tartaro, «si distinguono gemiti, e il fischio di staffilate/ crudeli, e stridore di ferri, strascichio di catene».
Radamanto, fratello di Minosse e guardiano del Tartaro, costringe a confessare le colpe commesse in vita. A seguire Tisìfone flagella le anime dei colpevoli che vengono scaraventate giù nella voragine che si apre nella terra per una profondità che è due volte l’altezza dell’Olimpo. Non sono descritte zone o cerchi del Tartaro, ma un coacervo confuso e magmatico di dannati abita questi nascosti recessi dell’Ade, colpevoli di ogni genere.
I Titani, i gemelli aloidi, Salmoneo e tutti gli altri che peccarono di hybris, ovvero di temerarietà verso gli dei, i fratricidi, i parricidi, i traditori e gli ingannatori, i morti in flagranza di adulterio, chi ha varato leggi per un proprio tornaconto, chi si è macchiato di incesto, tutti quanti hanno militato sotto infami insegne o hanno violato la pietas (sentimento di riverenza nei confronti di chi ci è superiore, gli dei, gli antenati, i genitori, il comandante): queste e tante altre colpe sono punite negli abissi del Tartaro.
Molteplici sono le pene comminate a questi dannati:
rotolano alcuni macigni enormi, penzolano altri
legati ai raggi d’una ruota, siede immoto l’infelice Tèseo
dove siederà in eterno; e, più sventurato di tutti, Flègias
tutti ammonisce e chiama a testimoni proclamando alle ombre:
– Dal mio esempio imparate la giustizia e a non sfidare gli dei.
Sono puniti nel Tartaro i Titani, i giganti ribelli, Tizio che cercò di violare Latona (e per questo due avvoltoi beccano il suo fegato), Issione che tentò invano di sedurre Era, moglie di Zeus (ed è per questo legato ad una ruota e condannato a girare con essa). Flègias è punito nel Tartaro perché cercò di incendiare il tempio di Apollo a Delfi per vendicare l’uccisione della figlia Coronide, uccisa da Artemide su comando del dio.
Flegias comparirà anche nell’Inferno dantesco. Alla fine del VII canto Dante e Virgilio arrivano al cerchio quinto, ove sono puniti gli iracondi e gli accidiosi, all’interno della palude stigia, che circonda la città di Dite. Dante vede una scena che non riesce bene a decifrare: due luci dall’alto di due torri si rispondono come fossero segnali luminosi codificati. Virgilio spiega che i due segnali preannunciano l’arrivo di una figura infernale. È Flegias che traghetta un vascello snello e piccolo. Rapido come una saetta appena scagliata giunge sull’acqua apostrofando Dante: «Or se’ giunta, anima fella!».
Come ha precedentemente messo a tacere Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto, così ora Virgilio rabbonisce anche il nuovo arrivato: «Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a vòto/ […] a questa volta/ più non ci avrai che sol passando il loto». Il demone accoglie Virgilio e Dante nella barca che affonda sotto il peso del corpo mortale «più che non suol con altrui».
Dante incontrerà un dannato, Filippo della famiglia Adimari, soprannominato Argenti per l’abitudine che aveva di ferrare i propri cavalli in argento. Arrogante e incline all’ira, si oppose aspramente al ritorno dell’Alighieri dall’esilio, probabilmente si impadronì anche di alcuni dei suoi beni. Flegias approda all’altra riva della palude stigia facendo scendere Virgilio e Dante.
Ritorniamo ora al Tartaro. Anche se avesse cento lingue, la Sibilla non potrebbe descrivere tutte le pene che si espiano nell’aldilà. La sacerdotessa consiglia di ripartire, non prima però di aver adempiuto ai sacrifici:
Ma orsù, prendi la via e compi l'offerta iniziata;
affrettiamoci disse. Vedo le mura costruite dalle officine
dei Ciclopi e le porte con l'arco davanti,
dove gli ordini ci obbligano di deporre questi doni.
Arrivato davanti alla porta, Enea deterge il suo corpo con l’acqua, compie il rituale richiesto e «affigge il ramo ad un battente». Giunta è ormai per lui l’ora di dirigersi verso i campi Elisi, la sede dei beati, ove incontrerà finalmente il padre Anchise.