Il Sessantotto ha ucciso l'amore?
«Perché l’amore fa soffrire» della sociologa israeliana Eva Illouz, è un'opera che interessa molto i cattolici, anche se l'autrice è molto lontana dal mondo cattolico. La tesi è coraggiosa: il Sessantotto non ha portato la liberazione, soprattutto alle donne.
È in arrivo in Italia, pubblicato dal Mulino, «Perché l’amore fa soffrire» della sociologa israeliana Eva Illouz, probabilmente il libro di sociologia più venduto nel mondo degli ultimi anni.
La studiosa israeliana è stata descritta come la sociologa più influente nell’orbe terracqueo. Ha anche dovuto subire infinite battute nei congressi internazionali di sociologi su come, volendo diventare ricco, un giovane che inizia a praticare la sociologia dovrebbe seguire il suo esempio e occuparsi di tormenti amorosi invece che affaticarsi sulla politica, l’economia o la religione che non assicurano certo tirature milionarie.
Eppure i libri della Illouz – in italiano era già uscito «Intimità fredde. Le emozioni nella società dei consumi» (Feltrinelli, Milano 2007) – sono vera sociologia. E rischiano di deludere il lettore – o la lettrice, perché afferma di scrivere anzitutto dal punto di vista delle donne – che è alla ricerca di un libro leggero e finisce travolto dal gergo sociologico e da riferimenti non sempre comprensibili ai non iniziati.
«Perché l’amore fa soffrire», come hanno rilevato «La Croix» e «Avvenire», può interessare molto anche ai cattolici. Ma attenzione: anche se questi quotidiani non lo hanno troppo spiegato, la Illouz non è una compagna di strada della Chiesa.
Considera il femminismo e i diritti degli omosessuali acquisizioni irrinunciabili della tarda modernità, e ha cura di ripetere perfino troppe volte che quando mette in luce i problemi che questa porta con sé in nessun modo vuole promuovere nostalgie anti-moderne o pre-moderne.
Ma allora perché il libro è rilevante per i cattolici? Precisamente perché non si tratta di consigli per la vita di coppia, ma di sociologia, per definizione descrittiva e scevra da giudizi di valore. La Illouz spiega «come stanno le cose» oggi nel rapporto amoroso eterosessuale in Occidente, e conclude che non stanno troppo bene.
Alcuni dati sono noti, e confermano quello che la sociologia sa da molto tempo: negli anni 1960 – in Italia parliamo del «Sessantotto», negli Stati Uniti di «the Sixties» – c’è stata una rivoluzione non meno radicale di quella francese o di quella russa, una rivoluzione culturale che ha avuto al suo centro la sessualità. Aggredita dalla legalizzazione dell’aborto e della pillola anticoncezionale, l’adesione alla morale tradizionale in tema di matrimonio è crollata.
Sia negli Stati Uniti sia nei principali Paesi europei il numero di divorzi è rimasto costante e basso fino agli anni 1960, quindi è raddoppiato fra il 1970 e il 1990 ed è continuato a salire fino al XXI secolo, quando si è fermato perché sono diminuiti i matrimoni.
Le coabitazioni negli Stati Uniti si sono moltiplicate per cinque fra il 1970 e il 2000, e nel 50% dei casi coloro che coabitano si dichiarano totalmente disinteressati al matrimonio. Il 76% degli uomini americani che si sono sposati prima del 1960 ha avuto matrimoni durati almeno vent’anni, un traguardo raggiunto solo dal 58% di coloro che si sono sposati negli anni 1970.
I dati sono sul tavolo dei sociologi da anni, ma la novità della Illouz è che – attraverso un paragone con atteggiamenti e comportamenti di altri secoli, condotto attraverso un’analisi dei romanzi e dei diari – mette in dubbio che si tratti davvero di una «liberazione» delle donne.
Nel secolo XIX, spiega la sociologa, la scelta del coniuge avveniva all’interno di un circolo relativamente chiuso di famiglie conosciute e della stessa classe sociale. Il corteggiamento avveniva attraverso una serie di rituali che confermavano lo status socio-economico e culturale della persona scelta e mostravano che era dotata del necessario «carattere morale». La scelta teneva certo conto dell’avvenenza, ma la nozione di «sex appeal» nasce solo nel secolo XX.
Una donna illusa e abbandonata tendeva – confortata dall’opinione generale della società – a biasimare i difetti dell’uomo, non a mettere in dubbio la sua capacità di suscitare amore.
Con il Novecento – e con gli «anni folli» tra le due guerre che anticipano la rivoluzione degli anni 1960 – le cose cambiano radicalmente. La rivoluzione sessuale fa diventare il «sex appeal» – incessantemente raccomandato alle donne dalla martellante propaganda dell’industria cosmetica e della moda – un criterio di scelta principale.
Le donne, in particolare, se una relazione va male o se sono abbandonate tendono a biasimare sistematicamente se stesse («dev’esserci qualche cosa che non va in me»), o a cercare spiegazioni in traumi infantili, secondo una vulgata freudiana banalizzata, ma diffusa.
Oltre la rivoluzione sessuale vi è stata un’assai più complessa rivoluzione nei sentimenti. Il marchio della sociologia della Illouz – senza che sia sempre chiaro se vuole chiamare in causa il capitalismo in genere o, come sembrerebbe più logico, i suoi eccessi – è la descrizione di come la rivoluzione culturale abbia trasformato i sentimenti in oggetto di consumo.
Un’ampia letteratura che professa di aiutare le donne e le coppie, il cinema, i romanzi incitano a cercare in una relazione l’autonomia, la perfetta uguaglianza e reciprocità, la soddisfazione anzitutto di se stessi, una continua effervescenza di emozioni forti, in assenza della quale si dichiara che la relazione è finita.
La fine dell’«omogamia», per cui quasi sempre si prendevano in considerazione solo possibili coniugi della stessa città, etnia, classe sociale ha ampliato all’infinito le possibili scelte. E con Internet la scelta infinita è diventata più di una metafora. Un’americana su tre oggi fa almeno un tentativo di cercare l’amore della vita via Internet, acquisendo così l’impressione – o l’illusione – di poter scegliere fra tutti gli uomini del mondo, non solo fra quelli che incontra fisicamente nella sua normale vita di relazione. E, per quanto siamo soddisfatti della persona che amiamo, il mito della scelta infinita ci dirà sempre che da qualche parte nel mondo ce n’è una migliore che ci aspetta, forse a distanza di un solo clic sul computer.
Il cinema e la televisione ci presentano amori «perfetti» e creano aspettative che difficilmente si riescono a realizzare. La letteratura è stata biasimata per suscitare utopie di un amore impassibilmente perfetto – e portare all’adulterio – fin dai tempi di «Madame Bovary» di Gustave Flaubert (1821-1880). Ma la Illouz sostiene che oggi le immagini, soprattutto da quando arrivano a getto continuo tramite Internet, creano una «vividezza» con cui paragonare la vita reale sconosciuta alla descrizione fatta di semplici parole.
Con le immagini «vivide» scatta un doppio meccanismo: prima ci identifichiamo, poi desideriamo vivere le stesse emozioni. Il che, aggiungo io, mostra quanto pericolosi per tutti siano film come quello premiato a Cannes che esalta l’omosessualità: non si può, come hanno fatto anche certi cattolici, vantarne i meriti artistici perché tanto «è solo un film».
Ma, per quanto sia duro da ammettere per un’estimatrice del femminismo, la Illouz deve concludere che le donne non sono state affatto «liberate». Gli uomini hanno ampliato la loro libertà di scegliere – soprattutto in tema di rapporti sessuali senza impegni di matrimonio – mentre quella delle donne, apparentemente infinita, è limitata dall’«orologio biologico» che riduce i loro tempi di scelta se vogliono avere figli: e, a credere alla Illouz, un numero sorprendentemente alto di donne continua a volerne, anche se più negli Stati Uniti che in Europa.
Inoltre, la pressione della psicologia popolare e della psicanalisi rende le donne più infelici di un tempo, martellandole con l’idea che se non trovano l’amore perfetto c’è qualcosa in loro che non funziona e che dev’essere curato – il che, naturalmente, alimenta l’industria dei cosmetici e della chirurgia estetica, dei manuali di auto-aiuto per le donne (ma ce ne sono anche per gli uomini) e delle costose sedute da terapisti di ogni genere.
Come uscirne? «Perché l’amore fa soffrire» è stato scritto prima che la serie dei romanzi della scrittrice inglese E. L. James, iniziata nel 2011 con «Cinquanta sfumature di grigio», vendesse nel mondo oltre trenta milioni di copie, diventando il maggiore fenomeno letterario di consumo del nostro secolo. La Illouz ha scritto nel 2012 per la rivista tedesca «Die Spiegel» un saggio molto controverso dove spiega perché, secondo lei, la saga della James – dove una vergine firma un contratto con un uomo che le promette una relazione stabile in cambio di una sua completa sottomissione a pratiche di tipo sado-masochista – ha avuto un così fenomenale successo.
Non per la pornografia presentata come «soft» o rispettabile, un’idea tutt’altro che nuova. Ma perché il contratto firmato dai protagonisti risolve in un colpo solo tutte le ambiguità dell’amore postmoderno, tornando paradossalmente a un rapporto governato da regole certe, addirittura contrattuali, che fissano nei dettagli l’equilibrio – vero o fasullo – tra uomo e donna, tra dolore e piacere, tra autonomia e sottomissione.
Poiché però il sado-masochismo è un prodotto amoroso di nicchia – ma già si prepara il film di «Cinquanta sfumature», che farà di certo anche lui qualche danno –, le soluzioni per rimettere ordine in quello che il sociologo tedesco Ulrich Beck, citato dalla Illouz, chiama il moderno «caos delle relazioni amorose» dovrebbero essere altre.
La sociologa israeliana identifica correttamente la causa delle difficoltà in cui si trova oggi l’amore fra uomini e donne: il divorzio totale dell’amore da un quadro di regole morali. Ma non offre soluzioni, perché ritiene che – per quanto le persone religiose o che credono nella morale tradizionale siano invitate a sedersi al tavolo e partecipare al dialogo – ultimamente la secolarizzazione dei comportamenti – la quale, come i sociologi sanno da tempo, è compatibile con un’ampia persistenza delle credenze religiose – sia irreversibile.
La riduzione dei sentimenti a oggetto di consumo, e la crisi dell’amore sono prezzi tragici da pagare alla modernità, rispetto alla quale la Illouz pensa però che sia impossibile tornare indietro: «si sono perse cose che non si potranno più recuperare».
Fino a un certo punto, l’analisi della Illouz può rimanere in dialogo con il Magistero della Chiesa, che dal beato Giovanni Paolo II (1920-2005) a Benedetto XVI ha identificato cause simili per la crisi dell’amore e del matrimonio. Ma a un certo punto le strade si separano, e alla Illouz si applica la critica dei sociologi della Scuola di Francoforte, da cui la sociologa trae ampia ispirazione, che Benedetto XVI propone nell’enciclica «Spe salvi». Hanno ragione quando mostrano i danni delle ideologie moderne, torto quando affermano che il rifiuto della religione e della morale di queste ideologie sia irreversibile: e una tale affermazione può solo produrre disperazione e nichilismo.
La nozione della «irreversibilità» della secolarizzazione dei comportamenti è la stessa che porta molti, anche tra i buoni cattolici, a ritenere l’aborto «irreversibile» e il matrimonio omosessuale forse in certi Paesi rimandabile, ma «inevitabile». Dietro a questa idea dell’«irreversibilità» c’è il mito illuminista del progresso e della storia necessariamente lineare. Ma la storia non è né lineare né circolare: è come la fa tutti i giorni la libertà delle donne e degli uomini che ne sono protagonisti.
È questa nozione antropologica della libertà che manca alla Illouz, la quale ha però il merito di mostrare che le «conquiste» moderne in tema di amore e sessualità non hanno reso gli uomini – e soprattutto le donne – più felici, semmai più disillusi e disperati. Ma non tutti.
Se è vero che in molti ambienti e paesi della Francia i giovani cattolici praticanti hanno ormai difficoltà a trovare un potenziale coniuge che ne condivida la fede – di qui il successo, che forse la Illouz dovrebbe studiare, di siti Internet di incontri francesi riservati a utenti di fede cattolica – non è meno vero che migliaia di coppie cattoliche felicemente sposate mostrano ogni giorno, anche nel moderno Occidente, che la disperazione non è un destino irreversibile e che un amore non separato dalla morale resta possibile ancora oggi.