Il ritorno della "cultura" del sospetto
Esiste una cultura politica liberticida, di matrice giacobina, che si base su un assunto: se sei ricco e potente, sei sicuramente un criminale che ha raggiunto l'obbiettivo barando. Un esempio? La legge ad hoc sul "conflitto di interessi".
Pierluigi Bersani ha già fatto sapere che uno dei primi provvedimenti di un governo da lui presieduto sarebbe il varo di una legge sul “conflitto di interessi” in forza della quale la semplice partecipazione alla proprietà di un’azienda radiotelevisiva sarebbe un motivo sufficiente di ineleggibilità alle cariche pubbliche.
Osserviamo per inciso che si tratta con ogni evidenza di una legge contra personam, ovvero pensata ad hoc per escludere dal Parlamento Silvio Berlusconi, leader di un partito che è stato liberamente votato da circa un terzo degli elettori del Paese.
Non è però sul caso particolare che vorrei soffermarmi qui bensì sulla cultura politica (liberticida) di cui un tale proposito è il riflesso: quella cultura di antica matrice giacobina il cui prototipo è la “legge dei sospetti” votata a Parigi dalla Convenzione nel 1793.
Secondo tale legge, una situazione di fatto (ad esempio essere un parente di una persona rifugiatasi all’estero) rendeva perciò stesso passibili di arresto, di giudizio, di condanna o comunque di esclusione.
Il “conflitto di interessi” così viene oggi descritto e configurato si colloca nella medesima prospettiva. E lo stesso dicasi di un provvedimento del governo Monti, appena entrato in vigore, che esclude ipso facto alcune categorie di cittadini (ex-parlamentari, ex-assessori ecc.) dalla possibilità di venire nominati presidenti o membri dei consigli d’amministrazione di società e altri organismi a capitale pubblico.
Appartiene al medesimo processo la campagna permanente di criminalizzazione dell’imprenditoria, dell’industria e delle forze politiche di centrodestra che, con il sostegno di influenti opinion leaders e potenti mezzi di comunicazione di massa, viene stabilmente condotta da personalità come Roberto Saviano e altri come lui.
Secondo questa campagna fra la criminalità organizzata e il mondo delle imprese c’è una prossimità naturale, che tende non appena possibile a trasformarsi in continuità effettiva. Lo stesso processo produttivo è per natura sua tendenzialmente criminale e distruttivo dell’ambiente; e degli infortuni sul lavoro sono sempre e solo responsabili ipso facto l’imprenditore o il direttore dello stabilimento.
Fra delinquenza organizzata e forze politiche di centrodestra ci sono poi delle complicità strutturali. Non importa che in decenni di accanimento giudiziario ciò non sia mai stato dimostrato. Non è dimostrabile, ma anzi proprio per questo è cosa certa. Non c’è bisogno della prova, basta il sospetto.
Rispetto al livello di civiltà giuridica cui eravamo giunti si tratta di un drammatico salto all’indietro, simile a un’altra involuzione simile i cui esempi si stanno purtroppo moltiplicando: lo spostamento, ottenuto con varie tecniche, ma sempre uguale nella sostanza, dell’onere di prova da chi accusa a chi viene accusato.
Il proverbiale uomo della strada non si preoccupa abbastanza di questi sviluppi forse perché crede che riguardino solo “lor signori”.
Sarebbe invece il caso di rendersi conto che quando gli spazi di libertà si riducono sembrano ridursi per pochi, ma in realtà si riducono per tutti.