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150 ANNI DA PORTA PIA

Il risorgimento secondo Biffi: lo Stato ignorò la nazione

Con l'unità d'Italia iniziò a circolare l’idea che non è Dio, ma l’uomo, a fare le leggi del mondo e il sacro subì un’eclissi. L'errore, per il cardinale Giacomo Biffi, non fu la fine del potere temporale della Chiesa ma che l'eredità cattolica, vero collante della nazione italiana, non solo non fu considerata dai responsabili del nuovo Stato ma fu avversata.

Cultura 20_09_2020

Oggi, 20 settembre 2020, ricorrono i 150 dalla breccia di Porta Pia, l’entrata dei “piemontesi” (come venivano chiamati) nella città eterna, uno degli episodi cardine della nostra storia recente. La presa di Roma fu in un certo senso il culmine del processo risorgimentale, un processo che ha poi portato alla nascita dell’Italia come la conosciamo oggi. 

Il Risorgimento fu fenomeno complesso e uno sguardo molto attento su di esso lo ebbe il Cardinale Giacomo Biffi (1928-2015), già arcivescovo di Bologna e figura importantissima del cattolicesimo del ventesimo secolo. Il cardinale Biffi si occupò spesso del tema del Risorgimento e del tema della nazione Italia, un tema che evidentemente gli stava particolarmente a cuore. Qui ci interessa specialmente un ampio saggio contenuto nel volume Pinocchio, Peppone, l’anticristo e altre divagazioni (Cantagalli). Il saggio si chiama Risorgimento, identità nazionale e stato laico ovvero Uno “stato” a spesa di una “nazione”. Già dal titolo si capisce molto. 

Saltando e sintetizzando, si può dire che il cardinale affermi che l’Italia aveva mostrato una grande vitalità artistica, culturale, sociale almeno fino al settecento ma poi entrò in un periodo di grande crisi. Già Roger Scruton nel suo "Essere conservatore" aveva identificato nel XVII secolo come uno snodo fondamentale per capire l’evoluzione storica recente: “Nel XVII secolo, quando la religione organizzata e la regalità cerimoniale persero la loro presa sulla mentalità della gente, quando lo spirito democratico mise in discussione il retaggio istituzionale e quando iniziò a circolare l’idea che non è Dio, ma l’uomo, a fare le leggi del mondo dell’uomo, l’idea del sacro subì un’eclissi”. Quel secolo fu una fine e un inizio, o un inizio della fine. Lo stesso Biffi afferma: “Come si vede, proprio dal momento che, con un governo "italiano", con un parlamento "italiano", con un esercito "italiano", siamo stati accolti nel consesso dei popoli come un soggetto autonomo e ben individuato, parrebbe che non avessimo più niente da dire a nessuno“. Egli in pratica afferma che l’unificazione nazionale ha coinciso anche con un momento di grande crisi della nostra nazione, l’unificazione non ha portato ad una creatività ma soltanto ad evidenziare una crisi già in corso.

Il cardinale però imputa una grave colpa: “L'errore più grave però è stato quello di aver sottovalutato il radicamento nell'animo italiano della fede cattolica e la sua quasi consostanzialità con l'identità nazionale". Questo anche perché, come sappiamo bene, il Risorgimento ebbe una connotazione fortemente anticattolica, fu orchestrato da forze e poteri che avevano tutto l’interesse nel danneggiare il cattolicesimo e la sua presenza nell’animo degli italiani.

C’è stata anche una incomprensione della differenza fra nazione e Stato. La nazione e tutto ciò che lega culturalmente, storicamente, quasi antropologicamente certe persone, mentre lo Stato è una istituzione politica di governo. In questo senso, la nazione italiana è ovviamente fortemente impregnata della sua eredità cattolica e questo non solo non è stato considerato dai responsabili del nuovo Stato ma è stato anche avversato, andando contro la vera essenza di quelle popolazioni che si voleva governare: “Ridurre concettualmente la nazione italiana entro l'idea di quello Stato, che da nemmeno un secolo e mezzo costituisce, per così dire, il suo rivestimento politico, è un equivoco più o meno consapevole che potrebbe poi determinare inconvenienti non da poco nel modo di concepire la nostra vita associata“. Non bisogna dimenticare, ci dice il cardinale, che istituzioni come università, ospedali, associazioni varie di assistenza, nascono in conseguenza della nostra eredità cattolica. Quindi non si può essere “culturalmente italiani“ se non si tiene conto di quella eredità.  

Il cardinale non ha uno sguardo nostalgico verso la situazione politica precedente al Risorgimento, anzi lui anche mette in luce quali sono stati i guadagni che sono venuti dal tempo risorgimentale. Uno di questi è la fine del potere temporale: “Il terzo "guadagno" rallegra in modo speciale i veri credenti ed è la scomparsa del "potere temporale" pontificio, che nessun cattolico si sogna più di rimpiangere". Questo punto è stato del resto messo in luce anche da alcuni pontefici della storia recente. 

Il cardinale chiama a una riflessione sul modo in cui la nazione è stata considerata nella nascita del nuovo Stato, uno Stato in cui per rispetto delle minoranze si mettono in discussione i diritti della maggioranza. Il cardinale osserva anche alla fine del suo saggio: “Noi non contestiamo affatto lo "Stato unitario", né ci auguriamo il suo svigorimento o la sua frantumazione. Chiediamo però che lo "Stato" lasci vivere e respirare di più la "nazione", in tutte le diverse realtà che la compongono; e anzi, in virtù del "principio di sussidiarietà", l'aiuti efficacemente a vivere e a crescere in tutta la sua multiforme ricchezza. La seconda distinzione indispensabile è quella tra la "laicità dello Stato" (che deve garantire la libertà effettiva di tutti i singoli e di tutte le aggregazioni, ed è incompatibile con ogni confessionalismo religioso o ideologico) e la cultura laicista, che è appunto una delle possibili, ma certo non doverose, opzioni ideologiche".

La riflessione di questo grande cardinale, una riflessione pacata e non ideologica, andrebbe posta ancora al centro di tutte le considerazioni che si fanno sulla nostra storia recente, una storia che ancora sembra non aver identificato un vero punto di svolta.