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Ora di dottrina / 156 – Il supplemento

Il Proprio della terza domenica di Quaresima

I testi del Proprio della terza domenica di Quaresima ben si addicono allo spirito di questo tempo liturgico, ma il loro valore risalta di più nel legame con la lettura del Mattutino del Rito antico che presenta la splendida figura del patriarca Giuseppe.

Catechismo 23_03_2025
Giuseppe venduto dai fratelli (di Antonio del Castillo, XVII secolo)

Il Proprio della III Domenica di Quaresima torna a coincidere per entrambe le forme del Rito romano. Fa eccezione il Communio Qui bíberit aquam, che nel rito riformato è legato al Vangelo della samaritana, presente nel ciclo A. Negli altri anni, anche l’antifona alla Comunione è identica nei due riti.

Se è vero che i testi del Proprio ben si addicono allo spirito fondamentale della Quaresima, segnata dalla lotta contro i nemici dell’anima che tendono insidie, e alla ricerca costante dell’aiuto di Dio, è altrettanto vero che il loro valore risalta maggiormente nel legame con la lettura del Mattutino del Rito antico (e in generale con le antifone che ricorrono nelle Lezioni della terza settimana di Quaresima, che riprendono il soggetto del primo Notturno della domenica).

L’Ufficio divino presenta infatti la meravigliosa figura del patriarca Giuseppe, venduto per invidia dai fratelli, ridotto in schiavitù, solo in un paese straniero, gettato in carcere per un’accusa falsa e infamante. Giuseppe è l’uomo che, ad un certo punto della sua vita, proprio quando in sogno Dio gli rivela il suo destino glorioso, precipita nelle tenebre di sventure sempre più gravi, che lo incalzano ad allontanarsi da un Dio che sembra essere d’un tratto svanito nel nulla. Come potrà uno schiavo ritornare nella casa paterna? Come potrà uno straniero in carcere trovare qualcuno che difenda la sua innocenza? La vita di Giuseppe appare senza via d’uscita, senza alcuno spiraglio.

Ma è proprio dall’abisso che sale la preghiera dell’uomo di fede, che non cessa di guardare a Dio e di sperare in Lui: «Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pédes méos: réspice in me, et miserére mei, quóniam unicus et páuper sum ego – I miei occhi sono sempre rivolti al Signore, perché è lui che libera dal laccio il mio piede: guardami e abbi pietà di me, perché sono solo e povero». La melodia dell’Introito è sviluppata sul VII modo. Secondo Guido D’Arezzo, il monaco che ideò il tetragramma, questo modo, detto anche angelico, esprime una gioia composta; non il trionfo, non la spensieratezza, ma pur sempre una gioia che si fonda sulla fiducia in Dio, la serenità della confidenza ancora sottoposta alla prova. Dunque, il modo ideale per esprimere la disposizione di Giuseppe, figura di Cristo, tradito da suoi fratelli, consegnato ai pagani, condannato ingiustamente e caduto nell’oscurità del carcere della morte, ma completamente abbandonato in Dio, sorgente della sua gioia. Lo stile semi-ornato si concentra soprattutto sulle parole semper ad Dóminum, che costituiscono così il polo di attrazione di tutta l’antifona, ed enfatizzano in tal modo la direzione degli occhi dell’orante sempre rivolti al Signore.

Un’altra preziosa indicazione della melodia dell’Introitus la ritroviamo nell’incipit; l’estensione squillante sol-re è identica a quella dell’Introito della Messa del giorno di Natale, Puer natus est, e alla prima antifona della Domenica delle Palme, Hosanna fílio David. Questi richiami sonori esprimono la grande realtà teologica dell’unità tra l’Incarnazione e la Redenzione; il Verbo si fa carne per redimere gli uomini, per rispondere al grido di aiuto di chi giace «nelle tenebre e nell’ombra della morte» (Lc 1, 79). Il cenno della mano del padrone (cf. Sal 122, 2) atteso da secoli dall’umanità schiava del peccato giunge «nella pienezza del tempo», quando Dio manda «il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge» (Gal 4, 4); l’Incarnazione punta però al mistero della Pasqua, che viene inaugurato con l’ingresso di Gesù a Gerusalemme. Ancora, questo intreccio melodico ci ricorda che Cristo Signore non è solo la risposta all’attesa dell’uomo che guarda verso il Cielo, ma Egli stesso, nell’Incarnazione e nella Passione, si è fatto servo, Egli stesso ha voluto entrare nel carcere di questa vita per essere tradito e umiliato, elevando i suoi occhi e il suo gemito «a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà» (Eb 5, 7).

Il Tractus Ad te levavi óculos meos insiste sul movimento degli occhi che si levano per cercare Dio. La composizione sviluppa i primi tre versetti del Salmo 122, dove la parola “occhi” ritorna per ben quattro volte e che presenta gli occhi del servo e della serva che guardano alla mano dei loro padroni in attesa dei loro ordini; così nell’amarezza dell’esilio e della prigionia, Giuseppe attende con pazienza e umiltà che da Dio venga qualche cenno al suo servo, che possa cambiare la sua condizione. Questa attesa piena di speranza, ma non meno carica di sofferenza, è quella del cristiano, che per l’opera della Redenzione non è più servo, ma amico. La sua nuova condizione lo riempie di una fiducia ancora più grande, che tuttavia dev’essere sempre temperata dall’umiltà di chi sa di non poter pretendere nulla da Dio. Ma è anche, come dicevamo, quella di Cristo stesso che si è fatto servo per liberare noi dalla schiavitù del Maligno. Si noti come nel primo verso del Tractus lo stile ornato insista sulla parola in cælis, come a voler trattenere il più possibile lo sguardo dell’orante nella dimora di Dio, i cieli appunto.

La dimora di Dio ritorna anche nel Communio: «Passer invénit sibi dómum et túrtur nidum, ubi repónat púllos suos […]. Beáti qui hábitant in domo tua, in sæculum sæculi laudábunt te – Il passero trova la sua casa e la tortora il nido dove riporre i suoi piccoli […] Beati quanti abitano nella tua casa, ti loderanno nei secoli dei secoli». Questa antifona indirizza la speranza dello sguardo: non si tratta di essere “solamente” liberati, come un uccello, dal laccio del cacciatore, ma di poter eternamente dimorare in Dio, come il passero e la tortora con i suoi piccoli. Ora il riferimento al laccio del cacciatore ci riporta alla prima domenica di Quaresima, quando – lo si è visto – tutto il Proprio è intessuto sul Salmo 90, che contiene proprio l’espressione ipse liberábit me de laqueo venántium: là l’orante veniva liberato dal laccio, proprio perché abitava «al riparo dell’Altissimo» e «all’ombra dell’onnipotente»; in questa domenica ci viene presentato l’uccello ormai libero che trova la sua dimora definitiva nella casa del Signore.

Interessante anche l’indugiare della melodia sulla parola domum, dove il ritmo rallenta con l’espediente di due pes (o podatus) quadrati consecutivi, ossia due note ascendenti sulla stessa sillaba; le sillabe della parola successiva, et tur-tur, sono invece caratterizzate da tre epiphoni (podatus liquescente), che hanno una specificità nell’esecuzione: il suono resta, per così dire, in parte “in bocca”, ossia non si esprime pienamente; il che rende molto bene il tubare della tortora, un verso che tra l’altro assomiglia alle vocali “u”, che ricorrono nel termine latino turtur. Ancora, questi tre epiphoni si giocano rispettivamente sulle note re-mi, do-re, re-mi, dando un effetto musicale che ben rievoca il battito d’ali dell’uccello in volo.



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