Il proemio di Virgilio e la simpatia per il dolore umano
Nel solco del genere epico, come Omero con l’Iliade e l’Odissea, anche Virgilio apre l’Eneide con un proemio, che sarà per secoli ispirazione per altri poemi. Enea è costretto a sopportare tanti dolori e appare subito come l’eroe della pietas. Il poeta presenta una sua riflessione personale, mostrandosi compartecipe della sofferenza umana.
Inizia finalmente il viaggio di Enea. Ma, prima che inizi, Virgilio deve introdurre l’opera, come richiede il genere epico, con un proemio che mostri al lettore l’argomento e chieda aiuto alle muse. Così, fece Omero nell’Iliade e nell’Odissea, quando chiese alla musa di cantare rispettivamente l’ira di Achille e «l’uomo di multiforme ingegno» (Ulisse) che vagò molto prima di tornare in patria. Così avrebbero fatto tutti gli altri cantori epici.
L’idea contemporanea di arte risente fortemente della convinzione che l’originalità sia la cifra caratteristica dell’opera artistica e che coincida nell’inventare ex novo tutta la scrittura. Quanto lontano è questo pensiero dal metodo di lavoro proprio della maggior parte degli artisti, almeno fino alla fine del Settecento! Fino ad allora, infatti, l’arte aveva sempre vissuto nel rapporto dialettico della contemporaneità con le opere del passato, in una relazione, cioè, di innovazione costante all’interno della tradizione.
Si chiama memoria letteraria questo rapporto vitale con le opere del passato, considerate come nostre contemporanee, spunto sempre nuovo d’ispirazione umana e artistica, come ben scrive Machiavelli nella bellissima lettera al Vettori del 10 dicembre 1513. I classici, a detta dello scrittore fiorentino, sanno esprimere quello che anche noi viviamo e proviamo, le nostre stesse ansie e le nostre aspirazioni, l’ardore e la paura del vivere, il desiderio dell’assoluto.
Per questa ragione l’opera d’arte nasce in questo rapporto di dipendenza e di innovazione con la tradizione letteraria precedente.
I primi versi dell’Eneide diventeranno fonte d’ispirazione di altri poemi per secoli:
Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris
Italiam, fato profugus, Laviniaque venit
litora, multum ille et terris iactatus et alto
vi superum saevae memorem Iunonis ob iram.
In traduzione:
Canto le armi e l’uomo che primo dalle rive di Troia,
proscritto per decreto del fato, guadagnò l’Italia e le spiagge
lavinie; molto si lasciò sbalestrare per terra e per mare dagli dèi
prepotenti, istigati dall’indelebile astio di Giunone furente.
Canere ovvero «cantare» è verbo che indica il canto poetico alto, al contrario del verbo ludere che indica la poesia giocosa, più bassa. Virgilio indica come materia della poesia prima gli eserciti e i combattimenti (arma), poi l’eroe (virum), Enea, con le sue gesta. Nello svolgimento del poema Virgilio racconterà prima la storia di Enea (parte odissiaca), poi le guerre in Italia (esade iliadica). L’eroe troiano, in fuga dalla roccaforte espugnata dai Greci, deve vagare per molto tempo in mezzo al Mare Mediterraneo prima di giungere in Italia e fondare una città da cui deriverà la gente romana.
La crudele dea Giunone perseguita un eroe pio come Enea, perché ha perso la gara di bellezza con Venere, madre del troiano, perché Cartagine è destinata ad essere distrutta dai Troiani (tra l’altro discendenti della relazione tra Zeus, marito di Giunone, e la ninfa Elettra) e perché il principe dei Troiani Ganimede, il più bello tra i mortali per Omero, fu rapito da Zeus perché divenisse coppiere degli dei nell’Olimpo, sostituendo Ebe (figlia di Giunone) che serviva nettare e ambrosia.
L’Enea virgiliano non soffre solo per le vicissitudini del viaggio, ma anche per le guerre che dovrà sostenere fino a quando non fonderà una città nel Lazio portandovi i Penati di Troia. Se i primi versi dell’Eneide mostrano i modelli omerici, al contempo dichiarano fin da subito la novità dell’epica virgiliana, perché il poeta latino si pone come autore dell’opera, creatore e tessitore della storia raccontata, colui che rielabora in modo originale una materia tramandata da secoli, come indica quel verbo cano alla prima persona singolare.
Nell’Iliade è la musa a cantare, come leggiamo nei versi di apertura, nella celebre traduzione di Rosa Calzecchi Onesti:
Canta, o dea [Musa], l’ira d'Achille Pelide,
rovinosa, che infiniti dolori inflisse agli Achei
Anche nell’Odissea persiste l’oggettività del racconto affidato direttamente alla musa:
L’uomo ricco d’astuzie raccontami, o Musa, che a lungo
errò dopo ch’ebbe distrutto la rocca sacra di Troia. (traduzione di Rosa Calzecchi Onesti).
La musa compare nell’Eneide solo all’ottavo verso. Il poeta non le chiede tanto l’ispirazione quanto aiuto perché gli ricordi le cause per cui Giunone costrinse un eroe «illustre per devozione ad affrontare tante vicende e a subire tante fatiche». Enea è costretto a sopportare tanti dolori (si vedano i verbi latini iactatus ovvero «gettato qua e là», passus cioè «dopo aver sopportato», tot adire labores ossia «affrontare così grandi fatiche») e appare subito come l’eroe della pietas (insignem pietate virum). Virgilio presenta una sua riflessione personale, mostrandosi compartecipe della sofferenza umana, palesando la sua simpatia per un personaggio che è costretto a patire, a sopportare sacrifici, nonostante con le sue azioni abbia palesato a tutti la sua virtù (che non è in primo luogo militare, ma coincide con uno spirito di sacrificio e di rinuncia in nome di una missione più grande, che riguarda il mondo intero):
[…] Tantaene animis caelestibus irae? Ovvero: «Di tanta ira sono capaci i celesti?».
Torquato Tasso (1544-1595) si ricorderà dell’incipit virgiliano nel proemio della Gerusalemme liberata (1581) quando presenterà la guerra e l’eroe, Goffredo di Buglione, che ha guidato i cristiani alla liberazione di Gerusalemme nella Prima crociata:
Canto l’arme pietose e ’l capitano
che ’l gran sepolcro liberò di Cristo.
Anche Tasso si avvale del verbo tipico della poesia epica («canto») e traduce quasi letteralmente l’espressione virgiliana che indica la materia poetica («arme pietose e capitano»).
Alcuni decenni prima Ludovico Ariosto (1474-1533), l’altro gigante dell’epica italiana cinquecentesca, aveva aperto l’Orlando furioso (1532) con versi che ricordavano in parte l’Eneide (verbo cantare, «i cavallier, l’arme»), pur mostrandone anche la distanza («Le donne, […] gli amori»):
Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto
Il poema dell’Ariosto mescolava al tema militare (ciclo carolingio) quello amoroso (ciclo bretone) presentando un eroe (Orlando) decaduto e impazzito d’amore per Angelica.