Il problema dei concili, secondo san Gregorio Nazianzeno
San Gregorio Nazianzeno diffidava di riunioni episcopali troppo frequenti, spesso alimentatrici di confusione. E ciò nonostante il contributo, in fatto di ortodossia, dato dai concili ecumenici di allora. Uno sguardo sull’epoca.
Lo scopo di questa serie di supplementi di apologetica non è certo quello di tracciare una storia della Chiesa. Come si diceva nel primo articolo che la inaugurava, l’intento è quello di recuperare una prospettiva storica che aiuti a comprendere come le crisi che la Chiesa ha superato durante la sua lunga storia hanno molti tratti comuni a quella che stiamo vivendo. E dunque avere qualche risorsa in più per evitare di cadere nelle stesse dinamiche malate, o di far nostre reazioni al male che già in passato hanno finito per fare ancora più male alla Chiesa e alle anime; ma anche per realizzare come Dio abbia salvato la sua Sposa da situazioni umanamente insolvibili.
Si è visto come il Concilio di Nicea, che voleva porre fine all’eresia ariana, abbia in realtà finito per darle vigore. Il che non è necessariamente un cattivo segno, perché, allora come oggi, per la guarigione del corpo l’infezione deve uscire, non rimanere nascosta. La confusione, la mancanza di chiarezza teologica, i legami con il potere politico, gli intrighi per poter “piazzare” i propri protetti nelle sedi episcopali, le incomprensioni, anche tra vescovi ortodossi, l’ambiguità ricercata di formulazioni di fede, le bassezze umane indegne di cristiani: tutto questo e molto altro costituiscono la trama del IV e V secolo, che noi conosciamo come l’epoca aurea dei Padri e dei Concili.
La grandezza dei primi e l’ortodossia dei secondi (ci riferiamo ovviamente ai concili ecumenici) sono il segno di come Dio sappia portare avanti la sua opera, senza aver come appoggio né i grandi numeri né condizioni particolarmente favorevoli. Verità confermata da quanto san Basilio Magno (329-379) aveva lamentato della condizione della Chiesa nel 373. Il suo grande amico e compagno di lotta nell’affermazione dell’ortodossia, san Gregorio Nazianzeno (330-390 ca), non era da meno: «Questa è la disposizione in cui mi trovo, se occorre scrivere quel che è vero: schivare ogni adunanza episcopale, giacché mai vidi alcun concilio che abbia avuto fausta conclusione o che abbia posto fine ai mali piuttosto che dar loro incremento» (Ep. 130, 1). È questo l’inizio di una lettera che Gregorio aveva inviato ad un certo Procopio, dignitario di corte, dopo aver preso parte e persino presieduto il Concilio di Costantinopoli del 381.
Certamente, nella valutazione di una frase così lapidaria, occorre tener conto dell’indole di Gregorio, decisamente restia ad occuparsi degli affari di questo mondo, molto più incline alla solitudine e allo studio e non poco amareggiata dai fatti che lo avevano coinvolto negli ultimi anni. Il suo amico Basilio, vescovo di Cesarea di Cappadocia, lo aveva infatti in qualche modo forzato ad accettare di divenire vescovo della piccola e inospitale cittadina di Sasima, per contrastare il crescente potere di Antimo, vescovo di Tiana. Antimo voleva divenire metropolita della seconda provincia della Cappadocia, dopo che l’imperatore Valente aveva appunto diviso la provincia in due. Di fatto, Gregorio non poté mai prendere possesso della sua sede episcopale, perché ciò avrebbe significato un intervento armato per “liberarla” da Antimo.
Ma il peggio per Gregorio doveva ancora arrivare. Nel 379 venne chiamato ad essere vescovo di Costantinopoli; o meglio, della piccola porzione cattolica della capitale imperiale, perché la stragrande maggioranza aveva rifiutato l’adesione al Concilio di Nicea. Dunque, un contesto di enorme tensione. Fece appena in tempo ad entrare in città che venne chiamato prima a partecipare e poi, dopo la morte di Melezio, a presiedere il Concilio di Costantinopoli del 381. E fu proprio grazie alla sua chiarezza e profondità teologica che tale Concilio mise ordine nei concetti per esprimere il mistero trinitario. Ma i suoi avversari presero come pretesto il fatto che Gregorio, passando da Sasima a Costantinopoli, aveva infranto il canone del Concilio di Nicea che impediva il trasferimento di sede di un vescovo. In verità, come si è detto, Gregorio non fu mai realmente vescovo di Sasima.
Fatto sta che Gregorio decise di lasciare il Concilio. E pure la sede di Costantinopoli, affidando ad un celebre Discorso (42, 20) tutta la sua amarezza: «Io mi sono stancato di sentirmi accusare per la mia clemenza; di combattere contro le voci malevoli e gli invidiosi, contro i nemici e contro i nostri. Gli uni colpiscono al petto, ma riescono a ottenere ben poco: infatti, dal nemico dichiarato ci si può difendere. Gli altri, invece, mirano alle spalle e sono, quindi, più pericolosi». E poi la percezione che la situazione di divisioni e contrasti fosse ormai superiore alle sue forze di uomo di studio e di preghiera: «Come metterò insieme e condurrò ad unità questi che da rivali siedono sulle cattedre episcopali ed esercitano la loro attività pastorale, ed il popolo che con loro si è diviso in blocchi contrapposti, come quelle parti che stanno vicine e si aggregano nelle voragini provocate dai terremoti, o come i servi e i congiunti nei casi di malattie contagiose, quando il male si trasmette con facilità dall’uno all’altro?» (42, 21).
Anche in virtù di tutti i sinodi che si erano radunati quasi ogni anno durante la controversia ariana e che avevano provocato ancora più confusione e divisione, Gregorio diffidava di riunioni episcopali troppo frequenti. Scrivendo ad un comandante militare che egli stimava molto, un certo Modario, Gregorio lo supplica di intervenire per gestire i forti contrasti ripresi tra i vescovi, in occasione di un nuovo concilio del 382 (al quale egli si rifiutò di partecipare): «T’imploro dunque (…) di porre fine anche alla contesa che tra di noi è sorta, adoprandoti, per quanto è in tuo potere, acciocché vi sia tra i vescovi, che si sono al presente riuniti, un pacifico commiato. Tenere spesso adunanze, senza che sia trovato il modo di mettere fine ai mali, anzi aggiungere tumulti a tumulti, è motivo d’un più grande disdoro, come tu stesso t’avvedi» (Ep. 136, 3-4).
Gregorio ha parole poco lusinghiere anche nei confronti dei propri confratelli vescovi; così affida all’amico Filagrio queste parole ironiche: «Ci ha sfiancati lottare contro l’invidia e i santi vescovi che dissolvono la comune concordia e reputano abbia marginale rilievo quel che alla fede attiene a paragone delle loro personali contese» (Ep. 37, 3). I concili e i sinodi sono evidentemente da sempre ghiotte occasioni per far prevalere contese e arrivismi personali sulla fede. E un animo sensibile come il suo non poteva che accusare lo spettacolo della crassa superficialità di fronte a questioni dottrinali di estrema importanza: «Il teatro è aperto a tutti: una grande fiera è in atto: nemmeno uno se ne vada senza aver fatto i suoi affari» (Carm. II 1, 11). Né Gregorio, poco dopo, nasconde la sua valutazione delle qualità umane e spirituali di questi “santi vescovi”: «Assembramento di cornacchie attrezzato per un unico scopo, caotica torma di giovanotti (…). A loro non avrebbe creduto conveniente concedere l’autorizzazione a parlare chiunque fosse maturo nel timore di Dio e nell’età: individui che tartagliano frasi sconnesse».
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