Il prete amico dell'uomo e non dei piani pastorali
Il notevole successo della fiction televisiva Don Matteo, interpretato da Terence Hill, oltre che all’intreccio di elementi drammatici e comici, è dovuto senza dubbio alla figura del protagonista, questo “prete detective”, che ha più fiuto di tutti e arriva sul posto giusto sempre prima dei carabinieri. Ma non solo.
Il notevole successo della fiction televisiva Don Matteo, interpretato da Terence Hill, oltre che all’intreccio di elementi drammatici e comici, è dovuto senza dubbio alla figura del protagonista, questo “prete detective”, che ha più fiuto di tutti e arriva sul posto giusto sempre prima dei carabinieri. Ma, ci chiediamo, è possibile fare un’indagine più approfondita di questa figura di prete? Io penso che ne valga la pena, perché essa può dire la sua parola nella attuale evoluzione della figura del sacerdote cattolico, che a volte stenta a trovare modelli di riferimento.
Anzitutto don Matteo si presenta come il misterioso personaggio biblico di Melchisedek «senza padre né madre»: non è circondato da genitori, fratelli, sorelle, nipoti. Non ha legami di sangue con nessuno nel paese, e già questo può essere caratterizzato come un tratto che richiama, anche se lontanamente, il Vangelo. Gesù non ha invitato i suoi apostoli a lasciare tutto, padre, madre, fratelli, sorelle, campi? Tuttavia don Matteo, a differenza del celebre Don Camillo, non vive solo, come un eremita, ma si è formato una sua famiglia del tutto particolare: egli, infatti, vive nella sua casa canonica con due persone diversamente abili, Natalina (che fa da operatrice domestica) e Pippo. In più accoglie in affido temporaneo dei ragazzi in difficoltà: prima Camilla e poi Tommaso e altri...
Molte scene si svolgono in questa casa canonica, dove si respira un’aria di famiglia, con gli inevitabili momenti di tensione, il tutto stemperato dalla grande calma e dal buon senso di don Matteo. Possiamo dire che qui siamo già fuori dagli stereotipi e dai luoghi comuni. Don Matteo poi si presenta quasi sempre con la tonaca, che porta con disinvoltura e senza complessi. A volte compare con giubbotto nero, basco e pantaloni, ma sempre con una crocetta o un segno di riconoscimento. Il suo mezzo di spostamento è la bicicletta o un furgoncino, non la macchina. Benché tutti attorno a lui usino il telefonino, lui no; si serve ancora del vecchio telefono della canonica.
È amico dei carabinieri e del sindaco, ma non chiede mai favori o privilegi per sé o per la chiesa. Le sue visite in carcere per incontrare persone detenute in attesa di giudizio sono regolarmente sottolineate, così come le visite in ospedale, quando c’è qualche ammalato. Sono due luoghi emblematici, dove la presenza del sacerdote è quanto mai significativa. Qualche scena lo fa vedere in chiesa, o mentre celebra un battesimo, un funerale, o mentre prega; qualche volta è al confessionale. Anche se appena accennati, questi momenti indicano che don Matteo non è un “detective” mancato, o uno psicologo di contrabbando, ma che ha una sua visione del mondo e delle persone che parte dalla fede. È soprattutto uno che sa ascoltare le persone, che cerca di capirle nei loro problemi, nei loro drammi, e le sa aiutare a prendere consapevolezza della propria dignità umana, anche se ferita dalla colpa.
Per tutti sa trovare la parola giusta, che aiuta le persone a crescere, ad accettare anche i propri sbagli e a prendersi le responsabilità dei propri errori. In questi momenti di profondo dialogo, don Matteo sa citare senza enfasi, senza il tono da predica, una frase del Vangelo o di un santo, che getta luce sulla situazione vissuta dalla persona. Gli esempi potrebbero essere tanti. Si può dire che ogni episodio racchiude un messaggio particolare, che può essere il perdono, la riconciliazione, l’accettazione dell’altro. Ne I conti col passato c’è un dialogo molto bello e profondo, nel parlatorio di un carcere, con un padre che pensa di aver perso la propria piccola figlia in un incidente. Vi è forse in queste parole l’eco di una esperienza autobiografica. «Io credo di capirti», dice don Matteo. «Perdere una figlia è il dolore più grande che c’è. Forse per questo tu ti prendi tutte queste colpe, per dimenticare il tuo dolore. Ma c’è un modo per guarire…». «Quale?», chiede il padre. «Devi dare il tuo dolore a Lui. Sai, noi quasi sempre pensiamo che Lui sia morto per noi solo per prendersi le nostre colpe; invece Lui lo ha fatto anche per prendersi le nostre sofferenze. Libera il tuo cuore, sii umile, dagli il tuo dolore… Lui non aspetta altro… Quando tutto questo sarà finito, ci facciamo un bel giro in bicicletta, tu ed io».
Nello stesso episodio, di fronte a uno che ha ucciso per passione amorosa e che sembra rendersi conto dell’enormità di ciò che ha commesso, don Matteo gli propone quel famoso racconto sapienziale, che circola in varie versioni: «C’era una donna che camminava su una spiaggia. Apparivano due orme, le sue e quelle del Signore. Ma proprio nei giorni più difficili, la donna vide che era rimasta soltanto un’orma. Lei si sentì abbandonata, ma il Signore le disse: I giorni nei quali c’è soltanto un’orma, sono proprio quelli in cui ti ho portata in braccio». In un altro episodio, di fronte a una donna che, per difendere il marito, ha sparato a un giovane volendo solo spaventarlo, ma di fatto uccidendolo, don Matteo le ricorda: «Sai cosa dice il Vangelo? “Se cerchi la tua vita, la perdi; se invece accetti di perderla, la troverai”. Tu sei rimasta attaccata a tuo marito, ma soltanto ora se accetti, umilmente, questa distanza [del carcere], lo troverai davvero». «Dio mi perdoni», dice allora la donna. «Non temere», risponde don Matteo, «Lui l’ha già fatto”» (Legittima difesa).
Ancora sul tema del perdono, a un giovane universitario che non riesce a perdonare e a perdonarsi per quello che ha fatto, don Matteo lo guida sulla strada dell’accettazione con queste parole: «Sai, noi tutti sbagliamo. Non lo vogliamo ammettere, ma è così. Non esiste un medico perfetto, perché non esiste una persona perfetta. Se non sai come perdonarti, basta che… basta che accetti la tua debolezza, e ti sarà facile, anche perché… perché Lui l’ha già fatto… da sempre». (La forza del sorriso). Alcuni possono rimanere sorpresi nel vedere un attore, che nel passato era sempre apparso in mezzo a cazzotti e sparatorie, rivestire ora la tonaca di un prete. In una intervista rilasciata nel 2005, Terence Hill così descrive il suo personaggio: «È un prete che non giudica e che non si sente di farlo nemmeno quando viene a contatto con persone che hanno sbagliato. Le radici sono quelle di Padre Brown, il prete-investigatore nato dalla penna di Chesterton che conosce l'animo umano meglio della polizia».
Si capisce che Terence Hill ama molto questo personaggio, lo vive dal di dentro, e questo lo rende credibile: «Io», sono parole dell’intervista, «penso che don Matteo sia credibile. Anzi che si renda piacevolmente credibile perché è uno che, non solo non giudica, ma sorride, scherza e ha un forte senso dell'humour. È un uomo furbo, che si intromette, e che, per certi versi, ricorda un po' quello che facevo con Bud Spencer nei film di trent'anni fa. E poi dice cose sensate, che io per primo condivido. Ma lo fa in modo da arrivare a tutti, anche ai più lontani». Don Matteo non è dunque spuntato dal nulla: «Se sono credibile nei panni di un sacerdote», dice ancora Terence Hill, «lo devo anche a certe scelte controcorrente che ho fatto in passato. […] Soprattutto quando vivevo in America, ho fatto delle scelte professionali che molti hanno ritenuto folli. Ho rinunciato a molti soldi, ma ero felice perché le madri mi fermavano per strada e mi dicevano: “Continui così, almeno possiamo portare i nostri figli al cinema senza paura di brutte sorprese”. È anche grazie a quelle rinunce se oggi posso fare don Matteo ed essere credibile».
Evidentemente, l’immagine del prete che appare nella fiction ha pure i suoi limiti. La dimensione “Chiesa” rimane un po’ sfuocata. Raramente si vede don Matteo a contatto con altri preti o con il suo vescovo, o impegnato in progetti di pastorale, in interazione con i collaboratori laici. Non esiste propriamente una comunità parrocchiale: sembra che la parrocchia si identifichi senza sovrapposizioni con la città. Questo, d’altra parte, è molto bello: il sacerdote deve essere il padre di tutti, anche di quelli più lontani, che non vanno mai in chiesa. Comunque, non bisogna confondere una fiction televisiva con un trattato di pastorale. Nel rappresentare la figura di un prete occorre senza dubbio fare delle scelte, non si può dire tutto. Si deve però riconoscere che il nostro “don Matteo sa congiungere l’antico e il nuovo: per un verso è tradizionale, ma per un altro verso è molto moderno. Soprattutto è una figura incentrata sulla relazione con l’altro, chiunque esso sia: il povero, il ricco, il bambino, l’adulto, la ragazza, il giovane, il politico, il carabiniere.
Il rispetto e la stima generale da cui è circondato sono certamente dovuti al suo abito, ma non sono atteggiamenti meramente formali o artefatti; è un’autorità che Don Matteo si è conquistato sul campo, grazie alla sua grande disponibilità, alla sua rettitudine, alla sua umiltà, alla sua capacità di immedesimarsi nei dolori dell’altro e di dire anche una parola difficile ma vera, che aiuta l’altro a crescere. Tutto sommato, il don Matteo della fiction appare come una figura poco convenzionale, dal profilo morale alto, capace di suggerire una direzione verso la quale il prete di oggi potrebbe convogliare le sue energie alla ricerca di una sua identità. Più che nei piani pastorali, che pur ci vogliono, la gente ha bisogno di qualcuno che, in nome di Gesù Cristo, la sappia ascoltare e starle vicino, soprattutto nei momenti del dolore e dell’errore.