Il Papa ripropone il mito immigrazionista smentito dai fatti
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Francesco torna a insistere sul tema dell'accoglienza senza se e senza ma. E parla dei migranti come risorsa contro la denatalità occidentale. Una narrazione che non regge alla prova dei dati concreti.
Per l'ennesima volta Papa Francesco è tornato a insistere sul tema dell'accoglienza, a suo avviso necessaria, degli immigrati nei Paesi industrializzati più ricchi: un tema che è ormai una tra le principali chiavi di volta nel discorso sociale e politico del suo pontificato, e che ha trovato nella Conferenza episcopale italiana una schiera di seguaci “più realisti del re” particolarmente affollata.
In particolare, nel discorso pronunciato in occasione dell'udienza concessa ai Padri Missionari Scalabriniani il Pontefice ha affrontato l'argomento non soltanto a partire dal consueto punto di vista della solidarietà nei confronti di chi è costretto a lasciare la propria terra «a causa di tragiche e ingiuste disparità di opportunità, di democrazia, di futuro, o di devastanti scenari di guerra che affliggono il pianeta», ma anche dal punto di vista della situazione demografica dei Paesi ospitanti, che, ai suoi occhi, rende urgente per essi aprire maggiormente le porte all'accoglienza tout court.
«Oggi tanti Paesi hanno bisogno dei migranti. L'Italia non fa figli, non fa figli. L'età media è di 46 anni. L'Italia ha bisogno dei migranti e deve accoglierli, accompagnarli, promuoverli e integrarli», ha dichiarato il Papa. Francesco ha dunque adottato, in questo caso, soprattutto l'argomentazione oggi più diffusa per giustificare una posizione immigrazionista “senza se e senza ma” nel cristianesimo a sfondo “sociale” come nella cultura politica della sinistra occidentale: quella secondo cui l'afflusso dei migranti non soltanto non rappresenta una minaccia per il benessere dei Paesi industrializzati che li ospitano, ma al contrario è una risorsa necessaria a compensare il calo demografico e l'invecchiamento delle società di quei Paesi, e a perpetuare nel tempo quel benessere, che altrimenti inevitabilmente diventerebbe ben presto insostenibile.
A partire da tale premessa, la sequenza di «accoglierli, accompagnarli, promuoverli, integrarli» proposta dal Papa appare come un corso naturale degli eventi, e i dubbi o le opposizioni rispetto a come quell'accoglienza sta attualmente procedendo appaiono irrazionali, di fronte a un'esigenza oggi primaria e irrinunciabile, anche su un piano puramente “egoistico” e utilitaristico, per le nostre società.
L'idea dello sviluppo storico che quella visione dell'immigrazione suggerisce è rettilinea, armoniosa, logica: società più ricche ma più anziane, con crescenti vuoti demografici, accolgono nel loro seno nuovi arrivi, più giovani e animati da una grande voglia di migliorare la propria condizione («maestri di speranza» che «non si arrendono», li ha definiti icasticamente Francesco). In base a quella visione, appare più che ragionevole la linea di coloro che vogliono facilitare il più possibile la concessione della cittadinanza agli immigrati – come in Italia viene proposto da parte dell'opposizione e, nella maggioranza, da Forza Italia, per accelerare e consolidare quel processo di ricambio.
Ma appena ci si confronta con le cifre, le statistiche e i dati concreti, e appena si analizzano le costanti che si vengono a creare nei rapporti tra autoctoni e immigrati in pressoché ogni parte dell'Occidente, l'idea dell'immigrazione come ancora di salvezza rigeneratrice per i Paesi ospitanti si rivela nient'altro che un mito, una rappresentazione ideologica quasi del tutto scollegata dalla realtà.
Innanzitutto, nonostante le diverse percentuali di afflusso, le diverse tempistiche del fenomeno, le diverse temperie culturali, le diverse politiche adottate dai Paesi occidentali, ad oggi emerge chiaramente un dato costante: l'integrazione effettiva degli immigrati nelle società che li accolgono, intesa come identificazione di essi con principi, cultura e costumi di quelle società, anche quando si tratta di residenti di seconda o terza generazione è un processo coronato da successo soltanto in una minoranza di casi, mentre in larga parte le differenze strutturali e incompatibilità di principi non soltanto non si attenuano, ma si accentuano, portando non alla fusione in una società allargata ma alla formazione di “bolle” incomunicanti e conflittuali. E ciò non per una insufficiente accoglienza o per il razzismo degli ospitanti, contrariamente a quanto pensano gli alfieri dell'assioma delle porte aperte come bene in sé, ma perché gli “scontri di civiltà” di cui parlava Samuel Huntington sono fatti reali, non eliminabili. Colmarli, o almeno evitarne le conseguenze conflittuali più acute, è possibile, ma soltanto se l'immigrazione, compresa quella legale e controllata, viene circoscritta a quantità molto limitate, attraverso l'uso di filtri e di criteri intesi a favorire l'afflusso di determinate categorie di immigrati piuttosto che di altri.
Ma anche quando non si vengono a creare scontri di civiltà aperti, non è affatto vero che gli immigrati provenienti da civiltà esterne all'Occidente abbiano sempre, o nella maggior parte dei casi, l'obiettivo di diventare cittadini dei Paesi di cui sono diventati residenti, e di essere organicamente parte di quelle comunità. Ciò è ben illustrato proprio dai dati più recenti relativi alla situazione italiana resi noti dall'Istat. Nel nostro Paese nel 2022, su 21.183 ragazzi figli di stranieri residenti divenuti maggiorenni, soltanto il 57% ha avviato le pratiche per avere la cittadinanza italiana: mentre proprio i più giovani, cresciuti con i loro coetanei autoctoni, secondo una certa propaganda dell'immigrazionismo “idilliaco” dovrebbero essere i più motivati a inserirsi pienamente nella società ospitante. E, più in generale, solo il 30% degli stranieri residenti in Italia nel 2002 un ventennio dopo era diventato cittadino italiano. Questa ritrosia evidente dimostra come prevalga, in gran parte degli immigrati, la tendenza a sentirsi parte del Paese d'origine più che di quello di approdo.
E la narrazione “idilliaca” dell'immigrazione si rivela un mito anche dal punto di vista strettamente demografico. Se il tasso di natalità degli immigrati tende ancora a essere leggermente più alto di quello della popolazione autoctona, la differenza si va assottigliando notevolmente man mano che i residenti aumentano e si stabilizzano. In Italia, il numero di figli nati per donna presso gli abitanti autoctoni nel 2008 era 1,33, contro il 2,53 delle donne straniere residenti. Nel 2022 il numero era diventato rispettivamente 1,14 contro 1,79.
Insomma, anche non volendo considerare tutti gli evidenti, spesso insormontabili problemi di integrazione, non è affatto vero nemmeno che gli immigrati “ringiovaniscano” le società ospitanti. Piuttosto, per una serie di fattori essi tendono ad adeguare la loro tendenza a riprodursi a quella del Paese che li accoglie.
Perché nonostante questi dati inequivocabili – riscontrabili in misura analoga anche in altri Paesi occidentali – si continua a proporre così insistentemente, in sedi religiose e politiche anche autorevoli, la favola dell'immigrazione come salvezza? Elaborare una risposta compiuta richiederebbe molto più spazio che quello del presente articolo. Qui possiamo solo dire che nelle élite occidentali l'idealizzazione dell'immigrazione appare strettamente connessa a un divorante, dilagante senso di colpa, a un bisogno di espiazione per i “peccati” commessi dalla propria civiltà nella storia, che è espressione di una distorsione secolarizzata del senso religioso. Una distorsione che oggi purtroppo contagia ampiamente anche il cristianesimo, e viene riproposta dai vertici delle sue Chiese, senza che vi sia consapevolezza del meccanismo che la origina.
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