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IL COLLOQUIO

Il Papa a Scalfari: "La grazia può toccare anche lei"

La Repubblica pubblica in prima pagina la trascrizione del colloquio fra Papa Francesco ed Eugenio Scalfari, a Santa Marta. Non è una "rivoluzione", ma è certo che questo tipo di comunicazione comporta dei rischi.

Ecclesia 01_10_2013
Repubblica

Lo avevamo scritto, tra il serio e il faceto, su queste colonne: di questi tempi «Repubblica» qualche volta sembra «L’Osservatore Romano». Lettera di Papa Francesco a Scalfari, lettera di Benedetto XVI a Odifreddi, commenti alle lettere, commenti dei commenti alle lettere. Chissà cosa ne penseranno i suoi laicissimi lettori. A qualcuno di loro dev’essere proprio scappata la pazienza ricevendo la sua copia di «Repubblica» il 1° ottobre e trovandosi davanti a una grande fotografia di Francesco e a un titolo a tutta pagina in prima: «Il Papa: così cambierò la Chiesa», che annuncia tre pagine di trascrizione di un colloquio fra Francesco ed Eugenio Scalfari. Si sa quanto «Repubblica» sia ossessionata da Berlusconi, che il giorno prima aveva avuto qualche problema con i suoi ministri e deputati: musica per le orecchie del quotidiano, relegata però in una colonna laterale. Nulla è più importante del Papa.

Si è convertita «Repubblica»? O il Papa – i Papi – sono caduti nella trappola di «Repubblica»? Dal punto di vista della comunicazione, questa è la domanda fondamentale e difficile. Benedetto XVI, quando scriveva a Odifreddi, sapeva su quale giornale il matematico ateo scrive, su quale sito – repubblica.it – ha il suo blog, e dove sarebbe finita anzitutto la sua lettera. «Repubblica» l’ha pubblicata in maniera rispettosa, ma è passato qualche giorno ed ecco cosa scrive Odifreddi sul suo blog che è parte del sito del quotidiano: «Da come la vedo io, a me sembra che sia stato ratzinger [scritto con la minuscola] ad “abboccare”, nel senso che mettersi a discutere con un ateo sul fatto che gesù [minuscola anche qui] possa non esistere è già un bel concedere all’avversario, per il solo fatto di mettersi appunto a parlarne». Parole che fanno meditare, condite da poco generosi e pataccari riferimenti a «fatti giudiziari» che proverebbero il coinvolgimento di Benedetto XVI «nella copertura» della pedofilia. Peccato che gli episodi cui allude Odifreddi nel suo libro siano stati smontati come bufale, non solo da Riccardo Cascioli in una vecchia, esemplare inchiesta su «Avvenire» e dal sottoscritto nel libro «Preti pedofili», ma anche dagli stessi tribunali americani. Ma non è questo il punto. I Papi, quando vanno a dialogare con chi scrive su «Repubblica» – non un giornale qualunque, ma la casa madre della dittatura del relativismo – «abboccano», come dice nel suo pittoresco linguaggio Odifreddi?

Diciamolo con chiarezza: i rischi ci sono, le perplessità su un tipo di comunicazione che pattina sul ghiaccio sottile anche, per non parlare della possibilità che aprendosi troppo a chi sta fuori della Chiesa si mettano a disagio molti che stanno dentro. Papa Francesco probabilmente conosce la battuta del suo predecessore san Pio X (1835-1914) secondo cui, quando si aprono le porte della chiesa per fare entrare chi sta fuori, bisogna sempre preoccuparsi che non escano coloro, pochi o tanti, che sono già dentro.

Se pure la conosce, Francesco ha deciso di correre il rischio. Lo ha ripetuto al congresso dei catechisti venerdì 27 settembre. Se la Chiesa non «esce» incontro a chi non la frequenta corre meno il rischio d’incidenti. Se invece la Chiesa «esce per le strade, nelle periferie, può succedergli quello che succede a qualche persona che va per la strada: un incidente. Tante volte abbiamo visto incidenti stradali. Ma io vi dico: preferisco mille volte una Chiesa incidentata, e non una Chiesa ammalata». Malata a causa dell’aria viziata di chi rimane chiuso nelle sue stanze e rinuncia ad uscire.

Ecco dunque il Papa amante del telefono che chiama Scalfari e lo convoca a Santa Marta. Il colloquio è trascritto: e dietro i titoloni sulla riforma della Chiesa – su cui il Papa non aggiunge gran che a quanto ha già detto tante volte – e sul «dovere di aprirsi alla modernità» – un rapido riferimento al Vaticano II, che riecheggia parole del venerabile Paolo VI (1897-1978) e dello stesso Benedetto XVI, non proprio una novità da prima pagina – emerge come Francesco pensa di proporre il Vangelo ai non credenti.

A Scalfari che gli riporta i timori dei suoi amici che il Papa lo voglia convertire, Francesco risponde che «il proselitismo è una solenne sciocchezza, non ha senso». Chi conosce i documenti della Chiesa su ecumenismo e dialogo, sa che da decenni questi condannano il «proselitismo» come modo petulante e aggressivo di tirare per la giacca i potenziali convertiti, contrapponendolo alla «missione» che procede in modo graduale e rispettoso, partendo da quanto il missionario e il suo interlocutore hanno in comune. Sì, nel dialogo non c’è nessun proselitismo. Ma c’è tanta missione.

Il Papa prende Scalfari per il suo verso, gli dice che anche lui – il vescovo di Roma – diventa anticlericale quando incontra il clericalismo, gli ricorda la sua amicizia con il cardinale Martini, gesuita come il Pontefice e a lui «molto caro», ripete le affermazioni già contenute nella lettera indirizzata al giornalista sul dovere per ciascuno di seguire la sua coscienza, «quello che lui pensa sia il Bene», rievoca perfino le comuni letture giovanili di testi sacri del comunismo, il cui «materialismo – precisa peraltro Papa Bergoglio – non ebbe alcuna presa su di me». Il modo di procedere è tipicamente missionario, nel senso che cerca di partire da punti comuni all’interlocutore e di suscitare la sua simpatia. E Scalfari sta al gioco, ricordando a sua volta – non senza la sua tipica civetteria – che da bambino vinse «una gara di catechismo tra tutte le parrocchie di Roma» e durante la guerra, nascosto dai Gesuiti per sfuggire ai tedeschi, accettò le loro condizioni per essere ospitato e si fece «un mese e mezzo di esercizi spirituali».

Naturalmente, quando è trascritto e proposto ad altri sulle colonne di un quotidiano, il momento del dialogo in cui si cercano punti in comune con Scalfari corre il solito rischio, noto al Papa, di un percorso «incidentato». Che Martini sia «molto caro» al Papa non significa che Francesco ne condivida tutte le posizioni, ma qualche dubbio resta, e nel riferimento alla coscienza il Pontefice evita di definirla – emergerebbe subito, come già nella lettera, che la concezione cristiana della coscienza è diversa da quella di Scalfari – e rimane un po’ sul vago. Certo, Scalfari è affascinato: ma è inevitabile che qualche lettore cattolico rimanga perplesso.

Il metodo missionario prevede però che dai punti in comune con l’interlocutore, una volta creata la cordialità e la simpatia, si passi propriamente all’annuncio, che – così concepito – non è, appunto, proselitismo. Ecco dunque che il Papa chiede a Scalfari «in che cosa crede», invitandolo a non rispondere con la retorica banale dell’onestà e del bene comune: «Non è questo che le chiedo. Le chiedo che cosa pensa dell’essenza del mondo, anzi dell’universo. Si domanderà certo, come tutti, chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Se le pone anche un bambino queste domande. E lei?».

Queste sono le domande essenziali da porre a quella maggioranza di occidentali che, come Scalfari ricorda, non vanno in chiesa. Il giornalista è in difficoltà, e risponde: «Credo nell’Essere, cioè nel tessuto dal quale sorgono le forme, gli Enti». Non basta, incalza il Papa: «Ma quello che voi chiamate l’Essere vuole definire come lei lo pensa?». Scalfari risponde con un pastone di vitalismo ottocentesco, scientismo da divulgazione spicciola e New Age: «L’Essere è un tessuto di energia. Energia caotica ma indistruttibile e in eterna caoticità. Da quell’energia emergono le forme quando l’energia arriva al punto di esplodere».

Di fronte a una risposta così confusa, Francesco – come Benedetto XVI nella sua lettera a Odifreddi – potrebbe ribattere che si tratta di «fantascienza», e che c’è più vera scienza nella teologia cattolica. Ma si tratta di un dialogo condotto con metodo missionario, e quindi la risposta paziente e che l’unica luce in grado di fare emergere la vita dalle tenebre è Dio, e che Dio può essere scoperto nel nostro cuore, dove può sempre entrare la grazia. A Scalfari il Papa parla di sant’Agostino (354-430) – non senza ricordare quanto importante il santo d’Ippona sia anche per Benedetto XVI –, il quale presentava «la grazia dispensata dal Signore come elemento fondamentale della fede. Della vita. Del senso della vita. Chi è non toccato dalla grazia può essere una persona senza macchia e senza paura, come si dice, ma non sarà mai come una persona che la grazia ha toccato».
 
Al giornalista ateo Papa Francesco assicura: «Anche lei, a sua totale insaputa, potrebbe essere toccato dalla grazia […]. La grazia riguarda l’anima». «Io non credo all’anima». «Non ci crede, ma ce l’ha».

In Inghilterra accettano scommesse su tutto, e può darsi che aprano le puntate sulla conversione di Scalfari. Personalmente, non ci punterei nemmeno una sterlina. Ma la mia sarebbe prudenza umana, mentre quella che il Papa annuncia – che chiunque, Scalfari compreso, può essere toccato dalla grazia – è una verità cui dobbiamo credere per fede, perché nulla è impossibile a Dio. «Uscire» a cercare tutti, anche i lontani dalla Chiesa – che oggi in Occidente sono maggioranza – fare missione con delicatezza partendo dalle domande che esistono nel cuore di ogni uomo per venire dolcemente al tema di Dio e della sua grazia. Questa è la lezione che – pure certamente consapevole del rischio di una pastorale «incidentata» e del disagio che operazioni mediatiche di questo genere creano presso tanti fedeli – Papa Francesco vuole trasmettere a tutta la Chiesa.