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PACIFICO

Il nuovo Risiko navale fra Usa e Cina

Uno degli aspetti meno rilevati dei primi giorni di Trump, è il suo annuncio del riarmo, che riguarderà tutti i corpi delle forze armate statunitensi. Anche la marina ne beneficierà, con un programma volto a contrastare la crescente potenza navale dei cinesi. Pechino, anche nel prossimo futuro, non costituirà una sfida credibile sul mare. Ma probabilmente gli Usa mirano a sfiancare la Cina con una nuova corsa agli armamenti.

Esteri 30_01_2017
Sottomarini cinesi

Il confronto che l’amministrazione di Donald Trump vuole imporre alla Cina sarà economico, ma anche militare e in particolare navale e con ogni probabilità porterà a un riarmo senza precedenti, da dopo la fine della Guerra Fredda, tra Washington e Mosca.

Uno degli aspetti meno rilevati dai media del programma elettorale di Trump riguarda il potenziamento militare degli Stati Uniti, paragonabile per i numeri e i costi solo a quello varato da Ronald Reagan negli anni ’80 e che portò alla corsa al riarmo con l’Urss conclusosi con il crollo sovietico. Il programma prevede 60mila soldati in più nell’Esercito, 12mila nei Marines, 100 aeroplani da combattimento aggiuntivi e 80 navi da guerra per riportare l’US Navy dalle attuali 274 unità di prima linea a 355, comunque lontano dal picco di 594 unità raggiunto nel 1987 in piena “Era Reagan” quando vennero rimesse in servizio e rimodernate persino vecchie corazzate della Seconda Guerra mondiale.

Il programma di Trump è stato colto al balzo dal Pentagono ancora prima dell’insediamento del nuovo presidente, come dimostra la richiesta del Dipartimento della Difesa al Congresso di stanziare fondi straordinari per 509 miliardi di dollari (pari quasi a un bilancio annuale della difesa USA) in 30 anni valutati necessari a costruire almeno una cinquantina dell’ottantina di navi da combattimento ritenute necessarie tra portaerei classe Ford, 36 incrociatori e cacciatorpediniere e 18 sottomarini d’attacco a propulsione nucleare più navi da trasporto e da assalto anfibio.

L’obiettivo è far fronte alla crescente potenza navale cinese che secondo alcune valutazioni potrebbe diventare nel 2020 la più grande del mondo per numero di navi. Un programma ambizioso in cui Trump ha fatto subito capire che non intende cedere alle pressioni delle grandi aziende del settore militare alle quali ha subito imposto una riduzione dei costi per i nuovi armamenti in lista per l’acquisizione. 

Prima ancora di insediarsi alla Casa Bianca, Trump ha strigliato Boeing per i costi, ritenuti eccessivi, dei nuovi velivoli presidenziali Air Force One, in programma, minacciando di tagliarne l’acquisizione. Non ha risparmiato Lockheed Martin per i costi stratosferici raggiunti dal programma F-35 obbligando il colosso industriale a impegnarsi in una sensibile riduzione dei prezzi. Negli ultimi giorni il presidente ha detto esplicitamente che la Marina ha bisogno di potenziare la flotta di sottomarini ma che il loro costo è troppo alto. Per l’industria si tratta, da un lato, di ridurre gli enormi profitti garantiti dal Pentagono, ma al tempo stesso la produzione di numeri più elevati di equipaggiamenti consentirà di aumentare il fatturato e ridurre il costo di ogni esemplare.

La minaccia cinese appare in realtà un po’ “gonfiata”, come accadde per quella sovietica negli anni ’80, presentata da Casa Bianca e Pentagono come formidabile per ottenere il via libera a nuovi fondi per la corsa al riarmo. Un rapporto reso noto il mese scorso dal Center for Naval Analyses, centro di ricerche finanziato dalla Marina Usa e altre agenzia militari, rileva che nel 2020 la Marina Cinese sarà quella più potente sul piano numerico superando le 270 unità di prima linea, di cui un centinaio per le operazioni oceaniche. Realizzato dal contrammiraglio Michael McDevitt, ora a riposo, il rapporto non può certo definirsi imparziale, ma sembra cavalcare il progetto di Trump condiviso dai militari. Sottolinea infatti i progressi cinesi nelle operazioni navali e l’aggressiva presenza rilevata negli arcipelaghi contesi con gli Stati vicini nel Mar Cinese Meridionale e Orientale. Tra tre anni Pechino potrà schierare 7 sottomarini lanciamissili balistici, altrettanti sottomarini da attacco sempre a propulsione nucleare e forse due nuove portaerei da affiancare all’unica oggi in servizio (Liaoning) sviluppata sullo scafo di una vecchia nave sovietica acquistata nei cantieri ucraini e originariamente gemella della portaerei russa Kuznetsov, quindi molto più piccola delle portaerei USA. Inoltre i cinesi disporranno di 20 moderni cacciatorpediniere lanciamissili, oltre 30 fregate e una flotta di navi sa sbarco inferiore solo a quella statunitense.

Un potenziamento credibile che però non scalfirà il primato statunitense che dispone di 10 gruppi navali incentrati su grandi portaerei e altrettanti con capacità limitate basati sulle portaerei da assalto anfibio. Nel 2020 l’Us Navy schiererà oltre il quadruplo (90) dei cacciatorpediniere cinesi e il doppio dei sottomarini lanciamissili balistici (14), 51 sottomarini nucleari da attacco per non parlare della maggiore sofisticazione tecnologica dei mezzi navali statunitensi per il 60% già oggi schierati nel Pacifico per decisione dell’Amministrazione Obama. Di fatto la Cina potrebbe schierare più navi degli USA solo impiegando in un conflitto difensivo le forze navali costiere.

Insomma, la Cina ancora per molti anni non sarà in grado di impensierire la supremazia USA sui mari ma potrà difendersi egregiamente se attaccata. Per questo la corsa al riarmo varata da Trump e sostenuta dal Pentagono sembra avere l’obiettivo di indurre i cinesi a incrementare progressivamente le spese militari, nonostante l’economia stagnante aumentando così le difficoltà di Pechino a gestire il crescente malcontento interno, a comprare “cannoni” assicurando il ”burro” al popolo. Più o meno la stessa strategia adottata da Reagan con l’Urss e ruivelarasi vincente.