Il nuovo presidente iraniano è un riformatore, ma sempre di regime
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Tutto cambia perché nulla cambi. Il motto si addice anche alle elezioni in Iran, dove vince un riformatore, il chirurgo Masoud Pezeshkian. Finora i riformatori non hanno mai riformato nulla, sono parte del sistema islamico.
Masoud Pezeshkian è il nuovo presidente dell’Iran. Ha vinto con il 53% dei voti, battendo Said Jalili, sabato 6 giugno. Succede a Ebrahim Raisi, morto in un incidente d’elicottero lo scorso maggio. Mentre il presidente defunto era conosciuto come il “boia di Teheran” per il record di dissidenti e oppositori che ha fatto giustiziare, in qualità di giudice, il nuovo capo del governo è un chirurgo che pochi conoscono e si presenta come uomo della riforma, dell’allentamento delle regole coraniche sui costumi e della pace con gli altri paesi. Apparentemente è l’opposto del predecessore e per questo l’Occidente spera in un cambiamento. Anche se i dissidenti in esilio avvertono: attenzione alla truffa dei riformatori. Finora, immancabilmente, hanno riservato grandi delusioni.
Prima di tutto, il sistema elettorale iraniano è fatto per escludere chiunque sia sospetto di dissenso. Rende onore al nuovo presidente il fatto di essere stato bocciato nel 2021, dal Consiglio dei Guardiani (l’organo di controllo dei candidati) e di non aver neppure potuto competere per la presidenza. Nel 2024 qualcosa è cambiato, evidentemente e all’inizio dell’anno Pezeshkian ha dichiarato che l’ayatollah, stavolta, non l’avrebbe ostacolato. C’è da pensare, dunque, che sia stato cooptato direttamente da Khamenei. L’ayatollah, lungi dall’essere deluso dalla sconfitta del candidato fedele alla linea del regime, Said Jalili, si è complimentato con il vincitore e con il popolo che si è recato al voto in gran numero per sceglierlo.
Infatti, la vera battaglia, più che fra conservatori e riformatori, era fra astenuti e votanti. Nel primo turno, i votanti erano appena il 40%. Nel secondo, la percentuale è cresciuta anche se non è arrivata al 50%. I dissidenti iraniani all’estero, fra cui anche Reza Pahlevi (figlio dell’ultimo scià di Persia) avevano caldeggiato l’astensione per non legittimare il regime. Dando per scontato che entrambi i candidati avrebbero comunque sostenuto la linea di Khamenei.
«Tenderemo la mano di amicizia a tutti», ha dichiarato Pezeshkian alla televisione di Stato. Parole di pace e di disgelo che però hanno un grosso limite: Pezeshkian ha anche chiarito che non ha intenzione di cambiare il rifiuto dell'Iran di riconoscere Israele. «Se Dio vuole», ha detto, «cercheremo di avere relazioni amichevoli con tutti i Paesi, tranne Israele».
D’altra parte non c’è da attendersi alcun grande cambiamento in politica estera: le decisioni, in quel campo vengono prese da Khamenei direttamente. Il presidente comanda all’interno dell’Iran, ma all’estero spetta alla Guida Suprema, a cui rispondono direttamente anche le Guardie Rivoluzionarie in patria e all’estero. Anche il programma nucleare è direttamente sotto il comando dell’ayatollah Khamenei, non del presidente.
In politica interna, Pezeshkian potrebbe cambiare qualcosa? La sua esperienza in politica iniziò sotto un altro presidente riformatore, Mohammad Khatami, che lo nominò ministro della Sanità nel 2001. Khatami fu proprio la dimostrazione che la Repubblica Islamica non avrebbe potuto riformarsi dall’interno. Dopo aver rilassato le regole sui costumi, represse duramente le proteste studentesche del 1999 che chiedevano vere riforme democratiche. Pezeshkian è stato poi un deputato dal 2008 e non si ricordano attriti con il regime. Molto morbida anche la sua posizione sulla drammatica rivolta e repressione del 2022, a seguito dell’uccisione della studentessa Mahsa Amini, per un velo indossato male, ad opera della polizia del costume. Non ha mai ammesso la colpevolezza degli agenti, la considera al massimo come un’ipotesi. Nel corso delle proteste successive, dei pestaggi, degli arresti e delle numerose condanne a morte, tutto quel che ha avuto da dire è stato un vago «Avremmo potuto fare meglio».
Benché non vi sia alcun automatismo, con una certa regolarità il regime islamico iraniano elegge presidenti riformatori quando è in crisi, mentre ne sceglie di più ortodossi quando è in fase più assertiva. In questi ultimi anni l’Iran è indubbiamente in crisi, a tutti i livelli: economica, politica, militare. Soffre le sanzioni e l’isolamento internazionale. Khamenei può aver scommesso su un nuovo volto riformatore, per ammorbidire l’atteggiamento occidentale. Ma difficilmente sarà un vero cambiamento.