PRISMA
Il mito della Cina
E' diventata ufficialmente la seconda economia mondiale, ma i paragoni con i Paesi sviluppati sono senza senso.
Prisma
19_02_2011
E’ un paragone senza senso. Se poi, facendo una divisione alla portata di qualsiasi scolaretto, ci si prendesse la briga di andare a dividere i due valori assoluti per le rispettive popolazioni si vedrebbe che nel primo caso si è e si resterà ancora per decenni nel Terzo Mondo mentre nel secondo caso si è e si resterà comunque ai vertici dell’economia mondiale. Sarà poi anche vero che, se l’economia cinese continuasse a crescere all’attuale ritmo per altri dieci anni, alla fine del decennio diventerebbe la prima del mondo in valore assoluto superando gli Stati Uniti (la cui economia in valore assoluto vale oggi tre volte quella cinese). Tuttavia in primo luogo non si registra in tutta la storia un precedente del genere; e in secondo luogo anche se ciò dovesse miracolosamente accadere resterebbe il fatto che la popolazione cinese (ai valori attuali) è quasi quattro volte e mezzo quella statunitense.
Fare poi dei confronti tra la Cina e singoli paesi europei ha ancora meno senso poiché bene o male dal punto di vista economico tali paesi non contano più da soli ma valgono soltanto come parte dell’Unione Europea. E questa ha circa 500 milioni di abitanti, contiene quattro dei sette Paesi del G7, e nel suo insieme ha un’economia che è di gran lunga la prima del mondo. Se le cose stanno così perché mai il luogo comune planetario riguardo alla Cina è quello appunto che la descrive come un gigante irresistibile che in quattro e quattr’otto si impadronirà del mondo? Da quali miti, da quali paure ed eventualmente da quali interessi questo luogo comune viene alimentato? Probabilmente da un insieme di vari elementi che proviamo qui a dipanare.
In primo luogo il sorprendente inconfessato fascino che le grandi dittature esercitano su larghi settori dell’opinione pubblica dei paesi democratici. E’ un fenomeno che già si poté rilevare negli anni ’30 del secolo scorso, per esempio in Inghilterra, nei riguardi non solo del fascismo ma persino del nazismo. Non ci si augurano i dittatori in casa propria ma non dispiace che ce ne siano nei paesi con cui si commercia.
In secondo luogo i media malati del nostro tempo, alle prese con un pubblico in costante diminuzione, cercano di frenarne l’esodo dispensando paure: paura dell’inquinamento, paura del terrorismo e nel suo piccolo (si fa per dire) paura anche della Cina. Se si riesce a convincere il pubblico che l’uomo è soprastato da problemi e da pericoli più grandi di lui, che non è in grado di gestire, ecco che ci si assicura una platea di lettori e di telespettatori ansiosi di sapere ogni momento che cosa di peggio devono ancora attendersi.
Non possiamo certo pretendere che lo sviluppo sia una nostra esclusiva. Ben venga che anche la Cina, l’India, il Brasile si sviluppino insieme al resto dei loro continenti. E lo stesso dicasi tanto più dell’Africa. Ed è ovvio che anche piccoli passi di paesi enormi abbiano grande peso in valore assoluto. Non ci soffermiamo qui a dire quanto fragile e incerto sia il futuro della Cina rispetto ad esempio a quello dell’India. Ne parleremo più ampiamente un’altra volta. Al di là di questo resta il fatto che la convivenza dei popoli sulla terra non può che basarsi su un equilibrio di forze.
Ognuno deve fare la propria parte e occupare il proprio spazio fisico, culturale ed economico. L’Italia, l’Europa, l’Occidente devono fare la loro parte e occupare il loro spazio. E se lo fanno e continueranno a farlo pacificamente ma fermamente non c’è motivo di avere paura di nessuno, Cina compresa.
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