Il Messico elegge presidente un populista messianico
Il Messico ha votato per il suo populista. Stavolta un "populista" in senso stretto: Andres Manuel Lopez Obrador promette di dare il potere al popolo, per "realizzare un regno di giustizia e fratellanza qui in terra". Un presidente messianico che vuole promuovere la "quarta trasformazione" del suo paese. Se queste sono le premesse...
Il Messico ha votato per il suo populista. Benché questo termine abusato dalla stampa politica, “populismo” sia ora usato per descrivere le politiche di destra, il Messico ha scelto un populista autentico, un uomo di estrema sinistra che promette di restituire il “potere al popolo” per via referendaria e rivoluzionaria. Uno che ha chiamato suo figlio Jesus Ernesto, in onore a Cristo e a Che Guevara. Il presidente eletto dalla maggioranza dei messicani è Andres Manuel Lopez Obrador.
Vecchia conoscenza dell’ambiente di estrema sinistra di tutto il mondo, in Messico è diventato celebre organizzando una serie di marce, che lui aveva solennemente ribattezzato “esodi”. Questi “esodi” partivano dalla sua provincia natale di Tabasco, produttrice di petrolio, e finivano a Città del Messico. Erano proteste contro le multinazionali, la corruzione, l’establishment, visti come tante facce della stessa medaglia. Nel 2006, Lopez Obrador per poco non vinceva le sue prime elezioni. Lungi dall’accettare la sconfitta, aveva invitato i suoi elettori a ribellarsi e a occupare i viali centrali della capitale. “Anche se ai miei oppositori può non piacere, al diavolo le loro istituzioni!” aveva arringato la folla allora. Nel suo più sobrio discorso allo stadio Azteca, alla fine della campagna elettorale del 2018, aveva visibilmente estratto il foglio con il suo discorso e letto con tono pacato che “siamo arrivati alla fine di questa campagna elettorale. C’è una gioia tangibile e contagiosa qui dentro, perché se l’umore della società riflette i sondaggi, domenica noi vinceremo”. Anche la sobrietà fa parte del personaggio: dichiara di non aver mai posseduto una carta di credito e ha promesso di non insediarsi nella residenza presidenziale, ma di affittare un appartamentino. Ha vinto e con un margine molto ampio, con il 54%, dunque 30 punti in più rispetto al conservatore Ricardo Anaya.
Lopez Obrador si appresta a diventare presidente di un paese in cui si contano decine di migliaia di morti nella guerra alla droga, quasi tutti provocati nella guerriglia fra bande di narcos. Diventa capo di Stato di un paese estremamente corrotto (135mo su 180 paesi nel mondo, secondo Transparency International). E vuole risolvere la questione in modo molto semplice: divide il suo paese in due classi sociali, la “mafia dei potenti” (che include establishment politico, imprenditori e multinazionali) e “la gente buona e onesta”. La “gente buona e onesta”, secondo il suo programma, ora avrà modo di votare, tramite referendum, per tutte le maggiori riforme che verranno proposte dal nuovo presidente, saltando altre scomode procedure della democrazia rappresentativa. Anche una riforma costituzionale è all’orizzonte.
Non è molto diverso da quel che sosteneva e prometteva il primo Hugo Chavez, all’indomani del suo insediamento in Venezuela nel 1999. Anche Lopez Obrador promette un cambiamento rivoluzionario epocale: vuole la Quarta Trasformazione, dopo la dichiarazione di indipendenza del 1810, le riforme di metà Ottocento e la rivoluzione del 1910-’20. Questa quarta trasformazione consisterebbe nel “fine della lunga e oscura notte del neoliberismo”. In pratica: nazionalizzazioni, socializzazioni e protezionismo. Promette di dare un giro di vite alla corruzione e con i soldi così recuperati pagare più pensioni ai poveri e investire in opere pubbliche. Ritiene che la sua elezione sia il culmine di una “lunga marcia”, una storia di lotta epica contro un’élite che ha asservito e ridotto in schiavitù la maggioranza dei messicani. I precedenti di questi “liberatori” messianici, comunque, non fanno ben sperare.
Il nuovo presidente del Messico avrà anche a che fare con un vicino molto ingombrante, Donald Trump. Si è già scontrato con l’inquilino della Casa Bianca con duelli a colpi di tweet. Sull’immigrazione e la volontà di costruire il famoso muro al confine col Messico, lo ha accusato di essere “razzista”, “xenofobo” e “neo-fascista”. Ma i due presidenti potrebbero essere molto più d’accordo fra loro di quanto non si pensi. Entrambi, l’uno da destra l’altro da sinistra, sono contrari al Nafta, il Trattato di libero scambio dei paesi nord-americani. Trump può trovare in lui un interlocutore che parla il suo stesso linguaggio protezionista ed appare sincero quando, nel suo tweet di congratulazioni scrive: “Non vedo l’ora di lavorare con lei”. Dal canto suo, il presidente di sinistra dichiara di voler trattare con la controparte nordamericana con “cautela e rispetto”.
Lopez Obrador, come Chavez prima di lui, usa a piene mani un linguaggio religioso. Oltre al nome del figlio, ha battezzato il suo partito “Movimento di Rigenerazione Nazionale”, acronimo: Morena, come la Vergine di Guadalupe. Nel 2016 dichiarava: “E’ una gioia immensa far parte di questo movimento, per costruire un regno di fratellanza e giustizia qui in terra”.