Il Medioevo: l’epoca in cui si ammirano i santi
Ogni epoca ha il suo modello di uomo ideale, colui che è ammirato e preso ad esempio. Se fossero esistiti i quotidiani nel Medioevo, sulle prime pagine avremmo visto le immagini di cavalieri e di santi. La fede comune fa nascere la consapevolezza dell’appartenenza ad un popolo che marcia assieme verso la stessa meta.
Ogni epoca ha il suo modello di uomo ideale, colui che è ammirato e preso ad esempio, che tutti desiderano imitare. Se fossero esistiti i quotidiani o le riviste nel Medioevo, sulle prime pagine avremmo visto le immagini di cavalieri e di santi. Ben altri erano, però, i generi letterari diffusi a quel tempo: tra questi spiccavano senz’altro le poesie d’amore, le biografie, i romanzi d’avventura e cavallereschi. Il genere agiografico era, però, senza ombra di dubbio il più diffuso nel Medioevo.
Dal XIII secolo in poi una delle più floride produzioni è quella che riguarda la figura di san Francesco. Ad un’impostazione in cui il santo viene presentato in chiave edulcorata e miracolistica, che trova la sua espressione nella Legenda prima e nella Legenda secunda di Jacopo da Varagine e nel XIV secolo nei Fioretti di san Francesco, se ne contrappone un’altra più realistica riconosciuta come più veritiera e attendibile dall’ordine francescano delle origini. Di questa è l’esempio più famoso la Legenda maior di san Bonaventura da Bagnoregio. L’espressione legenda non ha il significato odierno di «fatti inventati e mitici», bensì il valore di «cose da leggersi, perché importanti».
Nella lunga teoria di cavalieri medioevali ve n’è, poi, uno che incarna al contempo l’immagine del cavaliere e del santo. È san Galgano. Nato a Chiusdino vicino a Siena, per molti anni visse in maniera prepotente e violenta, finché, disgustato dalle sue azioni, non decise di conficcare la spada nella roccia, dove rimase come una croce su cui pregare, in solitudine, da eremita. In quei luoghi, alla sua morte, dopo la canonizzazione avvenuta nel 1185, venne costruita una cappella.
Nel Medioevo anche tanti sovrani, uomini potenti e capi di nazioni, sono stati proclamati santi. A santo Stefano viene fatta risalire la stessa nascita dell’Ungheria cristiana, espressione di un popolo che, nomade e lontano dalla civiltà che si era costituita nell’Europa altomedioevale discendente dai Romani e in quella bizantina che faceva riferimento a Costantinopoli, in pochi anni divenne sedentario, conobbe lo sviluppo delle città, un’organizzazione in regioni e in diocesi e la nascita delle leggi. La dinastia reale ungherese Arpad, cui appartiene santo Stefano, offrirà alla cristianità medioevale il fulgido esempio di numerosi santi.
Tutta la storia dell’umanità ci presenta l’occasione di vedere all’opera i santi, uomini dall’umanità cambiata dall’incontro con Cristo. Nel Medioevo, però, la novità assoluta è che queste figure sono percepite dalla sensibilità popolare e dalla cultura dominante come figure ideali, cui improntare la propria vita. Chiunque è chiamato alla santità e al compimento. La santità è la strada per ogni uomo, non solo di quei personaggi strani e leggendari come noi spesso consideriamo i santi. Di questo è ben cosciente l’uomo medioevale, che vede nel santo l’ideale di compimento dell’umano.
Una cultura unitaria e simbolica caratterizza l’uomo medioevale, propria sia del popolo che della classe intellettuale. Chi si dedica alle arti meccaniche è capace di interpretare gli affreschi delle cattedrali o conosce la Commedia di Dante. Pensiamo che lo scrittore Franco Sacchetti racconta nel Trecentonovelle (novella CXIV) che Dante un giorno piegò gli attrezzi del mestiere di un fabbro che aveva osato declamare storpiandoli alcuni suoi versi. La novella rivela molto della popolarità che il poema sommo gode presso i suoi contemporanei.
L’enciclopedismo tipico dell’epoca medioevale non mira tanto a raccogliere più pezzi del puzzle da ricomporre, ma a collegare i pezzi che già si possiedono con l’immagine complessiva. Questa affermazione non significa certo che nel Medioevo non siano incentivati la conoscenza e il progresso, bensì che la meta, il significato complessivo del vivere, la positività della vita e della realtà sono più chiari che nell’epoca contemporanea in cui le conoscenze in sé sono aumentate a dismisura senza per questo portare ad un aumento di consapevolezza sul senso dell’universo. Dal criterio di riferimento per un giudizio (l’ideale di Cristo) scaturisce nell’epoca medioevale una percezione di unità della persona, di non frammentarietà dell’io. È una mentalità molto distante da quella dell’uomo contemporaneo, piena, però, di fascino e di attrattiva, perché la persona è fatta per l’unità e per recuperare l’unità perduta.
Al carattere unitario della cultura corrisponde, sul piano sociale, la dimensione comunitaria della vita. L’uomo non solo si sente appartenente ad un credo comune, ad un ideale, ma vive concretamente all’interno di una comunità, che è rappresentata dalla corporazione, dal paese, dalla chiesa, ma soprattutto dalla famiglia. Scrive Regine Pernoud in Luce del Medioevo: «Per capire l’importanza di questa base familiare non v’è di meglio che paragonare […] la società medioevale, composta di famiglie, alla società antica, composta di individui. In quest’ultima l’uomo, vir, prima di tutto; nella vita pubblica è il civis, il cittadino che vota, fa le leggi, partecipa agli affari dello Stato; nella vita privata è il paterfamilias […]. Mai accade che la sua famiglia o il suo casato partecipino alla sua attività. Sua moglie e i suoi figli gli sono interamente sottomessi, in uno stato di perenne minorità […]. Si potrebbe studiare l’antichità –come infatti si fa- sotto forma di biografie». Invece, «per capire bene il Medioevo, bisogna vederlo nella sua continuità e nel suo complesso». Nell’Alto Medioevo la famiglia è l’unica fonte di unità rimasta in piedi, assieme all’altro centro di collaborazione, di mutuo aiuto, di preghiere e di fervente attività culturale che è il monastero.
Del resto, anche il sistema feudale che caratterizzò tanti secoli del Medioevo era basato non sul rapporto tra capitale e lavoro, ma sul rapporto di fedeltà e di protezione. Quando nel basso Medioevo nasce il comune, la nuova realtà scaturisce da un accordo tra alta borghesia e aristocrazia e si concretizza in una compresenza di potere civile e religioso all’interno della città, idealmente rappresentati dal palazzo del comune e dalla cattedrale. All’interno del comune, poi, nel tempo quanti esercitavano la stessa professione tendevano a lavorare nelle vicinanze, nelle stesse vie, affidandosi al mutuo soccorso e aiuto. Nacquero, così, le corporazioni dei mestieri, un esempio di come si possa lavorare per il bene di sé e degli altri e di come la competitività e la produttività non significhino necessariamente individualismo e autonomia lavorativa. Testimonianza di questa cooperazione sono ancora oggi il nome di molte vie nei centri storici delle città medioevali. Il nome delle strade è spesso quello della professione che era esercitata nelle botteghe ivi presenti.
Nel Medioevo professione e comunità, spirito di guadagno e mutua assistenza possono procedere parallelamente, in quanto lo sguardo dell’uomo medioevale è tutto catturato dal riferimento ideale di Cristo, che sa vincere ogni contraddizione. La fede comune fa nascere la consapevolezza dell’appartenenza ad un popolo che marcia assieme verso la stessa meta. Ciò che può unire è solo quanto è più grande dell’uomo e della sua miseria, il Mistero che è entrato nella storia e si è fatto carne. Quando l’uomo perde tale consapevolezza, ritorna in breve tempo a perseguire i propri idoli e i propri sogni, solo e di nuovo triste.