Il maschilismo pagano e il "femminismo" cristiano
Mentre per i filosofi greci la donna era un essere inferiore con cui accoppiarsi per necessità, per i cristiani non era così: san Tommaso d'Aquino, ad esempio, nota la maggior debolezza del fisico femminile, ma «quanto alle cose dell’anima la femmina non differisce dal maschio, poiché anzi talora si trovano delle donne superiori a molti uomini quanto all’anima».
Pubblichiamo "L’ eredità pagana dei greci: la misoginia da Aristotele a Galeno", tratto dal volume "Donne che hanno fatto la storia" (ed. Gondolin) di Francesco Agnoli e Maria Cristina del Poggetto.
È condivisa tra gli storici del mondo antico l’opinione secondo cui la discriminazione ingiusta nei confronti delle donne caratterizza sia il mondo latino e germanico, che quello greco.
Effettivamente buona parte dei pregiudizi che attraverseranno la storia europea, dal Medioevo all’Ottocento compreso - contribuendo in buona parte a giustificare l’esclusione delle donne dall’università-, affondano le loro radici proprio nella filosofia e nella medicina dei Greci pagani. Non è difficile comprendere il motivo di ciò: l’universale ammirazione per i Greci lungo la storia è stata foriera di grandi intuizioni, ma anche di notevoli incomprensioni che di solito i vari Classicismi tendono a dimenticare o sottostimare.
Sono stati i Greci a consegnare alla cultura europea, per esempio, un rigido geocentrismo, che sarà messo in dubbio nel basso medioevo, per essere poi confutato in modo scientifico soltanto molti secoli più tardi, persino dopo Copernico e Galilei.
Analogamente nel campo dell’anatomia e della medicina, le auctoritates greche, da Ippocrate ad Aristotele a Galeno, consegnano all’Europa una visione della donna non solo errata, ma presentata come “scientifica”, e per questo tanto più difficile da oltrepassare ed archiviare.
Per Aristotele, considerato a lungo un maestro anche nella cosmologia e nella biologia, la donna è «maschio mancato», è natura difettosa: imperfetta nel fisico, con un cervello più piccolo, «ginocchia più vicine e gambe più sottili», appare debole, incompleta, decisamente manchevole. Aristotele arriva a scrivere nel suo trattato Riproduzione degli animali che «il corpo ha dunque origine dalla femmina, l’anima dal maschio».
Per secoli, almeno fino alla fine del XVII secolo e alla scoperta degli ovuli e degli spermatozoi, grazie al microscopio, «dominò l’antico concetto biologico di Aristotele secondo cui la causa motrice, cui appartengono l’essenza e la forma (il maschio), era più divina per natura della materia (la femmina). In quest’ottica la riproduzione era vista come una necessità della vita in base alla quale l’essenza doveva farsi deteriore materializzandosi. Si comprende allora perché il parto, elemento fondamentale di questo deterioramento necessario, restava escluso dagli interessi della scienza astratta e quindi anche della medicina».
In età medievale e moderna i seguaci di Aristotele, che non conoscono ancora l’esistenza dell’ovulo femminile, di massima continuano a considerare la femmina «come il ricettacolo passivo dell’embrione», come una terra da seminare, mentre i seguaci di Galeno, in ossequio al maestro, come «un’introversione del corpo maschile».
Con il muoversi dei primi passi dell’anatomia, tra il Trecento ed il Cinquecento, «anche il corpo femminile, con le sue peculiarità anatomiche, viene “scoperto” dalla medicina. Il frontespizio dell’opera vesaliana, costituito dall’illustrazione di una lezione d’anatomia sul corpo di una donna, è una testimonianza significativa al riguardo. Ma le tavole dei capitoli inerenti agli organi della generazione sottolineano anche sino a che punto gli anatomisti continuano a essere influenzati dalla concezione galenica per cui la donna era l’introversione dell’uomo […] La scoperta del corpo femminile da parte dell’anatomia, nonostante questi limiti, apre un dibattito in ambito medico sulla donna. Il medico non può accontentarsi di descrivere solo le caratteristiche anatomiche dello specifico femminile: ha bisogno di capire meglio questa “imperfezione” della natura. Lo fa, ovviamente, all’interno della teoria (ancora una volta di orgine greca, nda) dei quattro umori (bile gialla, bile nera, sangue e flegma) destinata a restare sino al Seicento, il fondamento del pensiero medico. La donna, di umore freddo e umido, possiede organi spermatici più freddi e più molli di quelli dell’uomo e poiché il freddo ha proprietà di contrarre e restringere, tali organi restano interni. Ciò spiega non solo l’anatomia, ma anche una delle particolarità della fisiologia femminile: il non funzionamento. Il sintomo più significativo ne è il flusso mestruale, a cui viene attribuito un potere misterioso e malefico. Il quadro umorale tipico della donna ne spiega anche le caratteristiche psicologiche (debole, collerica, gelosa, bugiarda) così differenti da quelle dell’uomo (coraggioso, giudizioso, ponderato, efficiente). Nello zoomorfismo del tempo la donna è una pantera o una pernice, l’uomo è il leone o l’aquila».
La donna è dunque per i greci mas occasionatus, imperfetta, ed è definita da un suo organo, l’utero (da cui l’“isteria”, che deriva appunto dalla parola utero in greco, hystéra).
«Per la maggior parte dei medici - continua Vittorio Sironi - quest’organo che definisce l’identità femminile permette di spiegare una fisiologia e una psicologia estremamente variabili e la predisposizione alla patologia. La donna è un essere che si ammala facilmente, che bisogna cercare di soccorrere perché riesca ad accettare la sua condizione d’inferiorità senza ribellarsi. Questa immagine dell’utero come elemento causa prima delle qualità e dei mali femminili è in realtà rielaborazione d’antica concezione: discende dalla interpretazione che nei secoli è stata data a un passaggio del Timeo di Platone: “L’organo genitale degli uomini, naturalmente indocile e imperioso, come animale sordo alla ragione, spinto da furiose passioni si sforza di dominare su tutti: e per questa stessa cagione nelle donne la cosiddetta matrice [...] somiglia a un animale desideroso di far figli, che, quando non produce frutto per molto tempo dopo la stagione, si affligge e si duole, ed errando qua e là per tutto il corpo e chiudendo i passaggi dell’aria e non lasciando respirare, getta il corpo nelle più grandi angosce e genera altre malattie d’ogni specie, fino a che il desiderio e l’amore dell’uno e dell’altro sesso non li accoppiano insieme”. Alla luce di questa visione della fisiologia, della psicologia e della patologia femminili si comprende come di fatto, per molti secoli, la terapia delle malattie delle donne si basava sull’idea che la donna era succube del proprio sesso. La storia di una malattia come l’isteria è, da questo punto di vista, esemplare»1.
Per i medici greci dunque l’utero è «l’origine di tutte le malattie delle donne», ed il suo malfunzionamento è dovuto alla verginità o alla prolungata astinenza dai rapporti sessuali: per questo unirsi ad un uomo e concepire un figlio sono le terapie più consigliate nel De natura muliebri di Ippocrate e in generale nei trattati ginecologici dei greci.
Ebbene, se questa debolezza fisiologica della donna è un dogma della medicina greca - un dogma presente in vario modo nelle somme autorità pagane, da Platone, ad Aristotele, da Ippocrate a Galeno…- non è difficile capire la difficoltà di teologi cristiani, come Tommaso d’Aquino, che si trovano nella condizione di dover conciliare il dettato biblico («maschio e femmina li creò»), la teologia (uomo e donna entrambe creature dotate di spirito), la visione cattolica della verginità come scelta possibile anche per la donna (senza che ciò le procuri malattie e scompensi la sua natura uterina), con la “scienza” aristotelico-galenica dominante anche nel proprio tempo
In più occasioni l’aquinate allude alla pari dignità tra uomo e donna: «Quanto all’aspetto fondamentale dell’imago creationis, cioè la mens, non c’è per lui alcuna differenza tra due sessi, così come non c’è alcuna differenza negli altri tipi di immagine, cioè nell’imago prodotta dalla grazia e in quella prodotta dalla gloria».
Tommaso nota inoltre, esplicitamente, che «quanto alle cose dell’anima la femmina non differisce dal maschio, poiché anzi talora si trovano delle donne superiori a molti uomini quanto all’anima».
Detto ciò, qua e là, in modo poco sistematico, cita, in quanto auctoritas, Aristotele e la sua visione biologica della donna come «maschio mancato» o «incompleto» (mas occasionatus), ma «la limita fortemente».
Infatti la “debolezza” biologica della donna - che pure Tommaso si trova in un certo senso costretto ad accogliere come presunto dato scientifico del suo tempo (così come non può che accettare, a livello cosmologico, il sistema geocentrico) - comporta nel suo pensiero una legittimazione di uno stato di subordinazione, ma non di inferiorità sostanziale della donna in ciò che per un cristiano è davvero importante, cioè «sul piano della vita morale e su quello della vita soprannaturale»2.
Per concludere bisogna ricordare che per secoli la laurea in filosofia e medicina prevederà lo studio di Aristotele, su cui si fonda per esempio I donneschi difetti di Giuseppe Passi del 1599, un trattatello contro le donne, messo all’Indice dei libri proibiti dalla Chiesa cattolica del tempo, cui rispondono Moderata Fonte, con il suo Il merito delle donne, e Lucrezia Marinella, con il suo Le nobiltà et eccellenze delle donne co’ difetti, e mancamenti de gli huomini, entrambi stampati dall’influente Accademia Veneziana Seconda nel 1600. Nel libro della Marinella, in cui si arriva a sostenere la superiorità delle donne sugli uomini, l’autrice si dedica appunto a confutare «l’analisi della struttura fisiologica della donna fatta dallo stagirita: non più solo materia, bensì principio di vita e di spirito, dalla natura temperata e non fredda e umida come aveva sostenuto il filosofo».