Il maestro sia come un padre per gli alunni
“Nei confronti dei suoi discepoli, il docente, anzitutto, assuma i sentimenti di un padre, e sia convinto di prendere il posto di quanti gli affidano i figli”, scrive Quintiliano nell’Institutio oratoria, soffermandosi sul rapporto tra il maestro e l’alunno. Parole che sono di grande attualità anche oggi e utili a ogni insegnante, che deve saper coniugare professionalità e umanità.
Nativo della Spagna Tarragonese, Quintiliano (35 circa d. C. – 96 d. C.) mantenne per alcuni anni la prima cattedra pubblica di eloquenza, istituita dall’imperatore Vespasiano nel 78 d. C. Può essere considerata la prima scuola statale di Roma, nata con l’obiettivo di formare il cittadino romano, ma soprattutto i funzionari dell’impero, devoti all’imperatore e allo Stato. Se i Greci avevano investito molto sull’educazione dei giovani, lo stesso non fecero i Romani che avevano lasciato alla famiglia l’importante compito di trasmettere le tradizioni e il mos maiorum.
Quintiliano ricevette lo stipendio annuo di centomila sesterzi e conseguì una fama che gli valse il conseguimento delle insegne onorarie del console. Terminata la carriera d’insegnante pubblico, Quintiliano fu addetto all’educazione dei nipoti dell’imperatore Domiziano e si dedicò alla composizione dell’Institutio oratoria (la formazione del retore), opera monumentale in dodici libri, trattato a un tempo di pedagogia, di retorica e di critica letteraria.
Per Quintiliano la base della formazione dell’uomo e del cittadino, dell’oratore e del politico romano è rappresentata dagli studia humanitatis (la letteratura) e dalla morale. Il retore è, quindi, un vir bonus dicendi peritus, un esperto della parola, dotato di valori e di rettitudine.
Le parole che duemila anni fa Quintiliano riservava al rapporto tra il maestro e l’alunno presentano una grande attualità ancora oggi. In questo modo il retore descrive i doveri del maestro nei confronti degli alunni:
Nei confronti dei suoi discepoli, il docente, anzitutto, assuma i sentimenti di un padre, e sia convinto di prendere il posto di quanti gli affidano i figli. Egli non abbia vizi e non li ammetta negli altri. La sua serietà non diventi cupa e la sua affabilità non sia sguaiata, affinché, a causa della prima, non gli venga antipatia e, a causa della seconda, scarso rispetto. Parli spesso di ciò che è onesto e di ciò che è bene: infatti, quanto più spesso ammonirà, tanto più raramente punirà. Si adiri il meno possibile, ma non finga di non vedere i difetti da correggere, sia semplice nelle spiegazioni, resistente alla fatica, assiduo ma non eccessivo. Risponda volentieri a chi gli fa domande, di sua iniziativa interroghi chi non gliene pone. Nel lodare le esercitazioni degli allievi non sia né troppo stretto né troppo largo, poiché il primo atteggiamento rende noioso lo studio, il secondo genera eccessiva sicurezza. Quando corregge gli errori non si mostri aspro e offenda il meno possibile, perché il fatto che alcuni biasimino i ragazzi quasi come se provassero astio verso di loro ne allontana molti dal proposito di studiare (Institutio oratoria II, 2).
Nel mondo della scuola tutti gli insegnanti dovrebbero riflettere e meditare sulle considerazioni che Quintiliano solleva a partire dalla quotidiana esperienza di insegnante. Quante volte, oggi come un tempo, una materia non viene comunicata agli alunni perché manca una posizione corretta da parte dell’adulto di porsi di fronte al ragazzo!
Il maestro deve essere come un padre. Quando s’instaura un rapporto affettivo, più facilmente vengono trasmesse le discipline. L’affettività permette la trasmissione del sapere, l’impeto all’imitazione e il desiderio di non deludere.
Ogni docente si deve porre di fronte alla classe con la sua personalità, le sue qualità, tutto il suo essere. Deve essere salvaguardata la libertà dell’insegnamento, ma ciò non significa lasciare totale arbitrarietà all’insegnante nel porsi di fronte ai ragazzi. Vanno coniugate professionalità e umanità. Entrambi i fattori si devono compendiare, l’uno non ha efficacia piena senza l’altro. L’insegnante deve essere in grado di mantenere la disciplina, che non è il fine dell’educazione, ma requisito fondamentale e imprescindibile, punto di partenza perché possa instaurarsi un rapporto educativo.
La mancanza di disciplina è uno dei problemi fondamentali nelle scuole di oggi. La disciplina non è una formalità, ma è una forma sostanziale, è il riconoscimento che vi è di fronte ai ragazzi una presenza autorevole che può comunicare qualcosa d’importante. Il silenzio è, quindi, il riconoscimento che si è in una posizione di ricezione e di ascolto, non passivo.
Al contempo, la capacità del maestro di non adirarsi e di mantenersi moderato e un metodo corretto nella valutazione degli studenti accrescono la stima dei ragazzi nei confronti dell’insegnante. Il docente deve chiarire a tutti i criteri con cui il voto viene assegnato, quali siano i criteri di valutazioni e le richieste. Il ragazzo, così, si sentirà più protagonista, non subirà la valutazione, ma comprenderà il metodo, il percorso che deve sostenere.
La chiarificazione dei criteri di valutazione deve avvenire all’inizio dell’anno. L’insegnante dovrà esplicitare in maniera concreta e precisa (non fumosa, ricorrendo a categorie non ben comprensibili dai ragazzi) gli obiettivi che si devono raggiungere. Sarà opportuno nel primo mese di scuola commentare le interrogazioni degli studenti al momento della valutazione, non mortificando le prove, valorizzando gli aspetti positivi e, al contempo, sottolineando il percorso che si deve compiere per conseguire i miglioramenti richiesti. La valutazione dovrà essere in primo luogo chiara all’insegnante, non soggetta ad arbitrarietà. L’insegnante potrà ricorrere, ad esempio, al metodo della scrittura delle domande poste e della valutazione di ciascuna risposta.
Bisogna permettere al ragazzo di comprendere con chiarezza il percorso che il docente si aspetta da lui. Una delle ragioni della sfiducia che s’ingenera negli studenti non è tanto dovuta alla fatica nello studio, come si crede, ma al fatto che il ragazzo si trova spesso a faticare senza comprenderne il senso o senza vedere premiati i propri sforzi.
Per questo è altresì importante che l’insegnante sappia valorizzare al massimo il percorso del ragazzo, il suo impegno sottolineando i miglioramenti con parole di stima e di fiducia, mostrandosi come un alleato o, se vogliamo, un allenatore contento del conseguimento di buoni risultati. Il fallimento dello studente è, infatti, un fallimento anche per l’insegnante che non potrà non mettersi in discussione sempre.
Non significa certo che le colpe siano da ascriversi sempre all’insegnante o che il ragazzo debba essere sempre giustificato secondo un buonismo che spesso impera in alcune scuole oggi. Significa, però, che l’atteggiamento sovente assunto dal corpo docenti di colpevolizzare i giovani di fronte a risultati non soddisfacenti dovrebbe sempre interrogare l’adulto insegnante che dovrebbe chiedersi: «Riesco davvero a trasmettere il mio amore per la disciplina? Com’è possibile che io presenti questi argomenti in maniera più affascinante? Come posso recuperare un atteggiamento passivo dei ragazzi di fronte alle lezioni?».
Oggi, sempre più l’insegnante è definito come un facilitatore di conoscenze, come un certificatore di competenze. Ma come si può affrontare la questione dell’insegnamento se non si affronta quella dell’educazione? E come si può discutere di educazione se non si discute di cosa sia l’uomo? In realtà da questo confronto su cosa sia l’uomo si rifugge, certa com’è la maggior parte delle persone che non vi siano una visione unica e una verità e che, quindi, ognuno debba tenersi la sua opinione. In questo clima di relativismo si pretendono, però, la collegialità e le scelte condivise. È un paradosso, perché vera democrazia e relativismo non possono convivere. Non può esistere, infatti, una condivisione d’intenti senza la convinzione che vada cercata la verità.