Il guardiano Minosse e l’ultimo incontro con Didone
Didone è torva, bieca. Il suo sguardo, del tutto diffidente e astioso, non incrocia gli occhi di Enea, ma si rivolge al suolo. Impietrita come la roccia, sfugge nemica nel bosco ombroso, dove il primo marito Sicheo la aspetta con premura e corrisponde al suo amore. La donna non proferisce parola. La sua vendetta si compie in un astio che si è avvalso in terra di ogni discorso e che ora può tradursi solo in silenzio in attesa che scoppino le guerre puniche
Tra i morti prima del tempo Enea incontra anche i condannati a morte ingiustamente, descritti in un solo verso («hos iuxta falso damnati crimine mortis»), collocati in quel luogo da Minosse, indagatore («quaesitor Minos») che agita l’urna (non è chiaro di che urna si tratti e non compare alcuna descrizione da parte del narratore).
Questo personaggio mitologico convoca le anime e ascolta le loro vite. Due versi solo introducono Minosse che non riveste un ruolo teatrale o narrativo nella storia: è una semplice comparsa, che ci permette di comprendere come vi sia un ordine superiore nella distribuzione delle anime nell’aldilà; è lui l’intermediario tra l’al di qua e l’aldilà, che ascolta la vita e le azioni dei mortali.
Chi è Minosse nella leggenda? È il mitico re di Creta, che aveva fama di giudice giusto. Era sposo di Pasifae, padre di Arianna e di Fedra. La moglie Pasifae aveva generato il Minotauro dal rapporto con un toro. Il mostro venne nascosto in un labirinto. Atene doveva portare sette ragazzi e sette ragazze in pasto al Minotauro ogni anno fino a che Teseo non lo uccise facendosi aiutare da Arianna.
Ben diverso è il ruolo che Dante assegna a Minosse nell’Inferno ove diventa un mostro, guardiano non tanto del secondo cerchio dei lussuriosi, bensì del primo regno vero e proprio che inizia con il secondo cerchio (perché il Limbo è un mondo a sé stante, privilegiato). Minosse è un giudice che sta in piedi ad ascoltare le colpe commesse dalle anime dannate e commina la pena adeguata (aspetto mutuato dall’Eneide), avvinghiando la coda attorno a sé in base al numero del cerchio in cui il peccatore deve finire:
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.
Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi son giù volte.
Nel canto V, però, incontrando Dante, Minosse interloquisce anche con lui, insinuandogli il dubbio sulla figura del maestro Virgilio:
O tu che vieni al doloroso ospizio, […]
guarda com’entri e di cui tu ti fide;
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!
Per questo Virgilio ammutolisce perentoriamente Minosse:
[…] Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare.
Dopo i condannati a morte, Enea incontra i suicidi, coloro che si procurarono la morte e, avendo in odio la luce del sole, gettarono via la loro anima. Quanto vorrebbero in terra ora sopportare sia la povertà che le dure fatiche.
Tristezza e nostalgia sono i sentimenti principali che abitano questo luogo ove le anime sembrano percepire l’orribile e insensato gesto che hanno compiuto e desidererebbero ritornare indietro al momento prima di quell’azione violenta, sottolineata da verbi forti («peperere manu», «proiecere animas»). La norma divina non lo permette («obstat»): lo Stige circonda per nove volte con le sue acque quelle terre lontane, lo stesso Stige che nell’Inferno circonda la città di Dite, ove Dante deve accedere per attraversare la parte più bassa dell’Inferno.
Tra i suicidi Enea incontra pure Didone, appena morta, che vaga in un gran bosco. Quando la riconosce, l’eroe troiano scoppia in lacrime e le parla, mostrando tutto il suo affetto:
O sfortunata Didone, dunque è vera la notizia
che mi è giunta sul tuo suicidio e che ti sei trafitta con la spada?
Contrito e sorpreso che la sua partenza possa aver indotto la donna a quel gesto estremo, Enea giura che ha lasciato Cartagine controvoglia («invitus»), sacrificando i suoi desideri personali ad un progetto superiore, obbedendo ai comandi degli dei («iussa deum», «imperiis suis»). Mai avrebbe potuto credere che con la sua partenza avrebbe arrecato una sofferenza così profonda alla donna che amava. Le chiede di fermarsi e di parlare con lui per l’ultima volta («extremum fato quod te adloquor hoc est»).
Didone è torva, bieca. Il suo sguardo, del tutto diffidente e astioso, non incrocia gli occhi di Enea, ma si rivolge al suolo. Impietrita come la roccia, sfugge nemica nel bosco ombroso, dove il primo marito Sicheo la aspetta con premura e corrisponde al suo amore. La donna non proferisce parola. La sua vendetta si compie in un astio che si è avvalso in terra di ogni discorso e che ora può tradursi solo in silenzio in attesa che scoppino le guerre puniche.
Esce di scena definitivamente «colei che s’ancise amorosa,/ e ruppe fede al cener di Sicheo» (Inferno V).