Il grande afghano, un reportage da Herat
Le truppe italiane, statunitensi e afghane migliorano la situazione: c'è sicurezza, gli insorti si sono arresi o sono stati eliminati, il popolo coopera.
Herat, Afghanistan - Si fa presto a dire "transizione", il processo di passaggio delle competenze di sicurezza tra i 150 mila militari alleati e i 310 mila soldati e poliziotti afghani destinato a concludersi nel 2014 con il ritiro delle forze da combattimento alleate. Un processo che già da luglio riguarderà sette distretti incluso quello di Herat, dove ha sede il comando delle forze alleate nell'Ovest afghano guidato dal generale Carmine Masiello, alla test della Brigata paracadutisti Folgore.
Nel grande piazzale della base di Camp Arena le bandiere dei Paesi che schierano contingenti militari in questa zona dell'Afghanistan sono a mezz'asta, segno che almeno un soldato è morto nelle ultime 24 ore. Oggi si tratta di un americano. Non è caduto vittima di un'imboscata né è stato colpito da una Ied (i micidiali ordigni improvvisati che i talebani seminano lungo le strade) ma è stato stroncato da un infarto. Morire così in Afghanistan può essere paradossalmente interpretato come un segno di normalità e del resto chi volesse vedere il bicchiere mezzo pieno da queste parti può riscontrare molti segnali positivi circa la possibilità degli afghani di cavarsela da soli contro gli insorti. A Herat l'esercito e la polizia hanno fatto passi da gigante negli ultimi tre anni grazie al supporto fornito dai "mentor" italiani, ufficiali di esercito e carabinieri che affiancano, consigliano e indirizzano i comandanti locali.
Basti pensare che la cellula terroristica che aveva attaccato il 30 maggio la base del Provincial reconstruction team italiano a Herat è stata smantellata in pochi giorni dalla polizia. "Abbiamo arrestato oltre 11 sospetti, quattro dei quali hanno confessato di far parte di una cellula terrorista" ha dichiarato il generale Sayed Aqa Saqheb, comandante degli oltre 2 mila agenti attivi nella provincia di Herat. "Gli arrestati sono tutti locali ma sono stati addestrati in Pakistan e alcuni di loro erano stati coinvolti in precedenti azioni terroristiche".
Nelle ultime settimane gli uomini del generale Saqheb hanno sgominato altre due bande di insorti gestendo in piena autonomia le operazioni al fianco dei servizi d'intelligence del National Directorate of Security (NDS). Anche l'esercito ha migliorato le sue condizioni: il 207° corpo d'armata, responsabile per l'Ovest afghano, dispone ora di oltre 10 mila soldati meglio addestrati e meglio equipaggiati che in passato grazie ai materiali ceduti dagli statunitensi che includono veicoli blindati Hummer, elmetti in kevlar, giubbotti anti proiettile e fucili M-16.
A Camp Zafaar ("Vittoria" in lingua dari), pochi chilometri a sud di Herat, il loro comandante fa il punto sulla situazione. Il generale Dauranshah Shazada stima che gli insorti in tutto l'Ovest dispongano di circa 3 mila combattenti suddivisi in ben 186 bande. Un numero credibile se si considera che le stime valutano in 25/36 mila gli insorti attivi in tutto l'Afghanistan (che raddoppiano contando anche i miliziani part-time) ma considerato eccessivo dal'intelligence alleato, come conferma il generale Carmine Masiello. "Sul terreno non vedo un incremento delle attività degli insorti che stimiamo in alcune centinaia in tutto l'Ovest. I numeri che sento in giro sono a mio avviso fuorvianti. Se un tempo conducevano attacchi con decine di combattenti oggi gli insorti operano con non più di 6/12 uomini., raramente abbiamo a che fare con gruppi più numerosi. Il loro numero si è ridotto e oggi temono le perdite."
Il generale, che guida 8 mila militari della Nato per metà italiani, valuta l'attentato del 30 maggio come un tentativo di colpire il programma di transizione. "Certo attentati sono sempre possibili nonostante gli sforzi dell'intelligence ma il distretto di Herat è pronto per la transizione che riguarderà in un prossimo futuro l'intera provincia. L'obiettivo è sottrarre la popolazione all'influenza degli insorti come prevede la nostra strategia population centric." A nord, dopo tre anni di dure battaglie gli italiani sembrano aver preso il totale controllo dell'area di Bala Murghab dove il recente allargamento dell'area di sicurezza di oltre il 50 per cento non ha incontrato resistenza da parte degli insorti ancora attivi invece più a est dove il presidio delle truppe spagnole è più blando e fatica ad assumere il controllo del territorio.
L'aspetto più evidente è che dove le truppe italiane, statunitensi e afghane sono presenti da alcuni anni la situazione è migliorata, c'è maggiore sicurezza, gli insorti si sono arresi o sono stati eliminati e la popolazione coopera con le truppe alleate. Dove i presidi sono stati istituiti più recentemente, come nei distretti orientali della provincia di Farah, la situazione è ancora precaria. Lo sanno bene i paracadutisti del 187° reggimento che premono sui distretti più isolati di Kak-i-Safyd, Push-i-Rod e Bala Buluk o quelli del 186° che presidiano tre basi a Bakwa e Gulistan lungo 80 chilometri di strada non percorribile a causa degli ordigni esplosivi e delle imboscate. Qui la presenza di truppe afghane è ridotta al minimo e l'allargamento delle cosiddette "bolle di sicurezza" istituite intorno agli avamposti richiede tempo, estenuanti contatti con i capi villaggio e continui scontri con i talebani le cui forze vengono alimentate dalla vicina provincia di Helmand presidiata da 30 mila marines americani e truppe britanniche.
Per questo le diverse realtà operative riscontrabili oggi nel settore Ovest dovrebbero indurre a rinunciare a ogni ipotesi di ritiro rapido delle truppe alleate trasferendo invece nelle aree ancora calde i reparti da combattimento (e gli elicotteri) resi disponibili dal consolidamento della presenza delle truppe afghane nelle aree già pacificate.