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DIPLOMAZIA

Il governo italiano in Libia: troppo poco, troppo tardi

Dopo mesi di colpevole disinteresse, il governo italiano cerca in extremis di recuperare terreno con una visita lampo a Tripoli e Bengasi del ministro degli Esteri Di Maio. Ma senza una robusta iniziativa diplomatica alle spalle, le sue rischiano di essere solo dichiarazioni retoriche. Mentre sul campo le due parti si preparano a dar battaglia.

Editoriali 18_12_2019
Di Maio incontra Sarraj a Tripoli

Dopo mesi di colpevole disinteresse nei confronti della crisi libica, il governo italiano cerca in extremis di recuperare terreno con una visita lampo a Tripoli e Bengasi del ministro degli Affari Esteri, Luigi Di Maio che vede tutti i protagonisti ma non riesce a nascondere l’irrilevanza di Roma nella sua ex colonia.

Nella capitale ha incontrato il premier Fayez al-Sarraj e il vicepresidente del Consiglio presidenziale libico, Ahmed Maitig ribadendo l’appello al dialogo portando il messaggio “a nome dell’Europa” che la "soluzione non può essere militare". Secondo Maitig "Di Maio ha ribadito il sostegno al Governo di accordo nazionale e la necessità di trovare una soluzione politica alla crisi". A Bengasi invece il ministro italiano ha incontrato il generale Haftar e a Tobruk ha visto Aghila Saleh, presidente di un Parlamento libico. Di Maio si è fatto latore di una dichiarazione comune Berlino-Parigi-Roma hanno fatto appello a tutte le parti ad una cessazione duratura delle ostilità e alla ripresa del negoziato sotto l'egida dell'Onu.

Quanto valgano questi appelli, peraltro non supportati da una concreta e robusta iniziativa negoziale italiana e europea,  lo dicono i fatti stessi: le milizie sui due lati della barricata rafforzano i preparativi bellici appoggiati dai rispettivi sponsor. Il conflitto che si combatte da aprile alle porte di Tripoli sembra destinato a intensificarsi. Il premier del governo di accordo nazionale (GNA) di Fayez al Sarraj si è recato in Turchia e Qatar ottenendo supporto militare e finanziario mentre le milizie della Tripolitania sembrano serrare i ranghi contro l’Esercito Nazionale Libico del generale Khalifa Haftar. Misurata ha annunciato la mobilitazione generale di tutte le sue milizie con la dichiarazione dello “stato d'emergenza generale" e la volontà di mobilitare "tutte le proprie capacità e il peso della città" per "sradicare il totalitarismo". Altre 7 città hanno annunciato la “mobilitazione generale di tutte le forze per porre fine alla battaglia contro Haftar": Zliten, Khoms, Zawiya (Zauia), Zintan, Kabaw, Rahaibat e Jamil.

La sconfitta di Haftar attraverso una "grande operazione militare" è finalizzata "a spianare la strada a una Stato civile che assicuri il pacifico passaggio del potere" scrive il giornale Libya Observer (vicino al GNA). Finora le milizie di Misurata, che da aprile hanno protetto Tripoli dalle offensive dell’LNA, sostengono di aver messo in campo solo un quinto delle forze militari disponibili. Il maggiore peso militare di Ankara dopo gli accordi turco-libici e il rinnovato supporto finanziario del Qatar sembrano aver indotto tutte le milizie misuratine a scendere in campo per respingere la rinnovata offensiva dell’LNA appoggiato da egiziani, emiratini, contractors russi e di altre nazionalità oltre che da un migliaio di mercenari sudanesi.

Quanto i proclami alla mobilitazione generale siano sintono di una reale escalation della battaglia per la capitale o si tratti solo di annunci propagandistici che bilanciano gli appelli alla battaglia finale per Tripoli pronunciati da Haftar lo si comprenderà meglio solo nei prossimi giorni. Secondo le stime dell'Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI) di Milano sarebbero circa 7.500 gli uomini mobilitati da Misurata affiancati dalle milizie di Zintan (4.500 combattenti) e di Tripoli (4.500, di cui 1.500 della Milizia Rada, 1.300 delle Brigate rivoluzionarie, 800 della Brigata Abu Salim, 700 della Brigata Nawasi e 200 di altre formazioni) per un totale di 16.500 effettivi.   Haftar invece disporrebbe di 7.000 uomini dell'Esercito nazionale libico e 18.000 milizie ausiliarie composte da ribelli di Ciad e Sudan, ex-milizie pro-Gheddafi, unità tribali arabe e altre formazioni.

Il governo di Tripoli, ha reso noto di temere la "minaccia" di intervento egiziano in Libia dopo che il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, in una dichiarazione pubblicata, ha definito il GNA "ostaggio di formazioni armate e terroriste". Come ha riportato il sito arabo della CNN, Sisi aveva aggiunto che "saremmo dovuti intervenire direttamente in Libia e siamo in grado di farlo ma non l'abbiamo fatto perché il popolo libico non dimenticherebbe mai qualsiasi intervento esterno diretto nella sicurezza". Il Consiglio del GNA afferma di comprendere "il diritto dello Stato egiziano" alla "sicurezza nazionale ma non accetta alcuna minaccia alla propria sovranità" e "invita le autorità egiziane a rivedere le proprie posizioni circa la crisi libica e a giocare un ruolo positivo che rifletta la profondità delle relazioni storiche fra i due Paesi fratelli" ma non è certo un caso che domenica l’ambasciata di Tripoli al Cairo abbia chiuso i battenti per “ragioni di sicurezza”. L’approccio morbido dei toni usati dal GNA nei confronti del Cairo indica chiaramente il timore di un intervento militare diretto dell’Egitto che sbaraglierebbe in pochi giorni le milizie di Tripoli.

Un’ipotesi che non piace ai turchi: ad Ankara dove la commissione Esteri del Parlamento ha approvato il memorandum d'intesa siglato a fine novembre dal presidente Recep Tayyip Erdogan con il premier del GNA sulla "cooperazione militare e di sicurezza", che apre la strada a un possibile dispiegamento di personale e mezzi militari di Ankara a sostegno di Tripoli.

Il testo passerà ora all' esame della Grande assemblea nazionale in seduta plenaria, dove verrà votato nei prossimi giorni. Un altro memorandum d'intesa che stabiliva la demarcazione dei confini marittimi tra i due Paesi, firmato nella stessa occasione, è già stato approvato dal Parlamento di Ankara, nonostante la forte opposizione degli altri Stati della regione, tra cui Grecia, Cipro ed Egitto, che lo ritengono illegittimo.