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leone XIV

Il Giubileo delle corali e una lettera apostolica su Nicea

Il coro è «un simbolo della Chiesa che, protesa verso la sua meta, cammina nella storia lodando Dio» ricorda il Papa ai coristi e musicisti radunati in San Pietro nella solennità di Cristo Re. Nella stessa ricorrenza il documento dedicato ai 1700 anni dal primo Concilio ecumenico, a pochi giorni dalla partenza per la Turchia.

Borgo Pio 24_11_2025
Foto Vatican Media/LaPresse

È un'omelia tutta incentrata sul canto quella di Leone XIV nella solennità di Cristo Re, che ieri, 23 novembre, ha visto radunati coristi e musicisti in San Pietro per il Giubileo delle corali (all'indomani della memoria di santa Cecilia). Ed esordisce citando le parole di un inno liturgico, Vexilla Regis: «“Dalla Croce egli regna” come Principe della pace e Re di giustizia che, nella sua Passione, rivela al mondo l’immensa misericordia del cuore di Dio. Quest’amore è anche l’ispirazione e il motivo del vostro canto».

«Le grandi civiltà ci hanno fatto dono della musica affinché possiamo dire ciò che portiamo nel profondo del nostro cuore e che non sempre le parole possono esprimere», osserva il Papa. Il canto è «espressione naturale e completa dell’essere umano: la mente, i sentimenti, il corpo e l’anima qui si uniscono insieme per comunicare le cose grandi della vita» ed esprime l'amore – «Cantare amantis est», diceva sant'Agostino («il canto è proprio di chi ama») – «ma anche il dolore, la tenerezza e il desiderio». Nella liturgia «il canto esprime l’invocazione e la lode, è il “cantico nuovo” che Cristo Risorto innalza al Padre, rendendone partecipi tutti i battezzati. , come un unico corpo animato dalla Vita nuova dello Spirito». Per Leone XIV «il coro è un po’ un simbolo della Chiesa che, protesa verso la sua meta, cammina nella storia lodando Dio». E cita sant'Ignazio di Antiochia per mostrare come «le voci diverse di un coro si armonizzano tra loro dando vita ad un’unica lode, simbolo luminoso della Chiesa, che nell’amore unisce tutti in un'unica soave melodia». 

Il tema dell'unità ritorna nella lettera apostolica In unitate fidei, promulgata nella solennità di Cristo Re, con lo sguardo rivolto all'imminente viaggio in Turchia in occasione dei 1700 anni dal Concilio di Nicea, «che proclamò nel 325 la professione di fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio. . È questo il cuore della fede cristiana. Ancor oggi nella celebrazione eucaristica domenicale pronunciamo il Simbolo Niceno-costantinopolitano, professione di fede che unisce tutti i cristiani» e che «ci dà speranza nei tempi difficili che viviamo», turbolenti come nel IV secolo quando, «insieme all’unità della Chiesa era minacciata anche l’unità dell’Impero». Alcuni dei vescovi presenti «portavano ancora i segni delle torture subite durante la persecuzione».

Ricorrendo a due parole greche per esprimere le verità della fede – «“sostanza” ( ousia) e “della stessa sostanza” ( homooúsios)» – il Concilio niceno «non ha voluto sostituire le affermazioni bibliche con la filosofia greca», al contrario, se ne servì «per affermare con chiarezza la fede biblica distinguendola dall’errore ellenizzante di Ario. L’accusa di ellenizzazione non si applica dunque ai Padri di Nicea, ma alla falsa dottrina di Ario e dei suoi seguaci. In positivo, i Padri di Nicea vollero fermamente restare fedeli al monoteismo biblico e al realismo dell’incarnazione. Vollero ribadire che l’unico vero Dio non è irraggiungibilmente lontano da noi, ma al contrario si è fatto vicino e ci è venuto incontro in Gesù Cristo».

Nella professione di fede, il Papa si sofferma in particolare sul verbo descendit, «discese»: il Credo «non ci parla dunque del Dio lontano, irraggiungibile, immoto, che riposa in sé stesso, ma del Dio che è vicino a noi, che ci accompagna nel nostro cammino sulle strade del mondo e nei luoghi più oscuri della terra», spogliandosi «della sua maestà infinita». Un fatto che «rivoluziona le concezioni pagane e filosofiche di Dio», così come un'altra espressione «particolarmente rivelatrice»: «l’affermazione biblica "si fece carne", precisata inserendo la parola "uomo" dopo la parola "incarnato". Nicea prende così le distanze dalla falsa dottrina secondo cui il Logos avrebbe assunto solo un corpo come rivestimento esterno», ma si è fatto uomo, con corpo e anima, perché noi fossimo divinizzati. «La divinizzazione non ha nulla a che vedere con l’auto-deificazione dell’uomo. Al contrario, la divinizzazione ci custodisce dalla tentazione primordiale di voler essere come Dio. Ciò che Cristo è per natura, noi lo diventiamo per grazia».