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MEDIO ORIENTE

Il futuro di Israele dopo il ritiro degli Stati Uniti

Gli Usa stanno lanciando chiari segnali di volersi ritirare dall'area euro-mediterranea, come dimostra anche il recente accordo con l'Iran sul suo programma nucleare. Quale sarà il futuro per Israele senza la protezione di Washington? Il muro-contro-muro potrebbe portare alla sua estinzione, quindi deve cambiare strategia, verso una riconciliazione con i vicini. L'Ue dovrebbe lavorare su questo percorso.

Esteri 14_09_2015
Obama e Netanyahu

Fino all’anno scorso non si poteva parlare di Vicino e Medio Oriente senza parlare di Israele. In un modo o nell’altro lo Stato ebraico era sempre al centro degli eventi nella regione. Adesso è come se non ci fosse più, e lo stesso si può dire dei palestinesi. Anche loro sembrano non fare più notizia. Ieri Gerusalemme è tornata per poco alla ribalta a seguito di un’irruzione della polizia israeliana nella moschea di Al-Aqsa, uno dei maggiori luoghi santi musulmani della città, ma senza che ciò suscitasse la forte eco internazionale che un evento del genere avrebbe suscitato in altri tempi.  Che ne è dunque di Israele?

Nello scorso marzo il leader del Likud, Benyamin Netanyahu, è uscito vincitore dalle elezioni battendo il laburista Herzog e riconfermandosi in quel ruolo di protagonista della politica israeliana che è suo ormai da circa vent’anni.  Benché priva di alcun sostegno internazionale, la linea di Netanyahu, contrario a qualsiasi accordo di rilievo con i palestinesi e contrario a che i territori loro attributi divengano uno Stato, gode insomma del consenso della maggioranza degli israeliani.  Poche settimane dopo questa sua riconferma gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno siglato con Teheran un accordo che ha fatto uscire l’Iran khomeinista dall’isolamento diplomatico ed economico nel quale veniva tenuto da oltre 35 anni. Israele vede nell’Iran il suo maggior nemico e lo accusa di essere il principale fomentatore del terrorismo internazionale.  Perciò era sempre riuscito a convincere Washington a continuare a stringerlo d’assedio. Con Obama il clima era cambiato e infine si è appunto giunti all’accordo di cui si diceva. E questo malgrado l’esplicita opposizione di Netanyahu. Gli stessi repubblicani, da sempre vicini a lui e al suo Likud, pur schierandosi dalla sua parte non hanno giocato al Congresso tutte le carte a suo favore che avrebbero potuto giocare.

Evidentemente, più di ogni altra cosa, pesa un cruciale dato di fatto: gli Stati Uniti stanno ritirandosi dall’area euro-mediterranea.  Perciò sono bene attenti ad evitare qualunque sviluppo che potrebbe portarli a coinvolgersi un’altra volta in un conflitto in tale area. Per Israele, che è nato e cresciuto sulla base di una stabile alleanza di ferro con Washington, ciò equivale a un totale cambio di orizzonte. Tale ritiro sarà un processo magari lento, ma di certo irreversibile. Israele sta perciò per diventare orfano. Non lo è ancora, e un eventuale successore repubblicano del presidente Obama potrebbe procrastinare tale evento, ma la tendenza non cambierà perché non può cambiare per motivi di fatto. Gli Usa non sono più in grado di essere presenti a tutta forza sia nel Pacifico che nel Mediterraneo. E dovendo perciò scegliere tra l’uno e l’altro, ovviamente scelgono il Pacifico. 

Malgrado tutta la sua straordinaria superiorità tecnica e organizzativa rispetto a tutti gli altri Stati della regione, Israele è relativamente una realtà minuscola da un punto di vista sia demografico che territoriale. Se perciò sceglie solo la strada della forza, senza un… grande fratello, a lungo termine perde comunque.  Dal momento che il vecchio grande fratello se ne sta andando e un altro nuovo non si prospetta, Israele non ha altra possibilità se non quella di usare tutto il tempo che trascorrerà nella fase di transizione per ritagliarsi uno spazio stabile sulla scena del Vicino Oriente, giocando non più solo la carta della forza ma anche quella di uno sviluppo condiviso. Il muro contro muro tra Israele e i suoi vicini è in ultima analisi contrario agli interessi sia del primo che dei secondi. Lavorare a favore del superamento dei rancori e della sfiducia reciproca che oggi rendono impossibile una svolta nei rapporti arabo-israeliani, che altrimenti sarebbe ovvia, dovrebbe essere il primo obiettivo di una politica europea per la pace nel Mediterraneo e nel Levante. Purtroppo però fino ad oggi questa politica non c’è.