Il diritto canonico nega la comunione ai politici abortisti
A proposito della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla comunione ai politici abortisti, cosa dice il Diritto Canonico? Non sono ammessi alla comunione, tra gli altri, gli scomunicati. È scomunicato anche chi collabora all'aborto con un contributo necessario: quindi i politici abortisti. Che, inoltre, in modo ostinato perseverano in un peccato grave e manifesto.
Torniamo sulla lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF) che aveva come tema la comunione ai politici favorevoli all’aborto. Cosa dice il Codice di diritto canonico al riguardo?
Il canone 915 recita: «Non siano ammessi alla sacra comunione gli scomunicati e gli interdetti, dopo l'irrogazione o la dichiarazione della pena e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto». Fissiamo per ora la nostra attenzione sulla categoria degli scomunicati. Il canone 1398 a sua volta afferma: «Chi ricorre all’aborto, conseguendone l’effetto, incorre nella scomunica latae sententiae». In prima battuta parrebbe che lo scomunicato possa essere solo il medico, che materialmente provoca l’aborto, e la donna, che sceglie per sé l’aborto. Dunque il politico che pubblicamente è a favore dell’aborto sembrerebbe escluso dal novero dei soggetti che ricorrono all’aborto e che quindi vengono colpiti da scomunica. Non scomunicato allora il politico potrebbe comunicarsi. Ma le cose non stanno così perché la scomunica può investire anche i collaboratori, sia materiali che morali. Infatti il canone 1329 § 2 recita: «Incorrono nella pena latae sententiae annessa al delitto i complici non nominati dalla legge o dal precetto [come avviene nel canone 1398 in cui i complici non sono nominati], se senza la loro opera il delitto non sarebbe stato commesso […]». In genere la dottrina indica queste figure di collaboratori che possono contribuire in modo necessario al delitto di aborto: genitori, infermieri, assistenti sociali, personale dei consultori, etc. E i politici favorevoli all’aborto?
Prendiamo Biden. Il Presidente, tra le altre iniziative, ha approvato lo stanziamento di fondi pro-aborto. Senza quei soldi non si sarebbero potuti praticare e non si potranno praticare alcuni (pochi o molti non importa) aborti. In breve il finanziamento è condicio sine qua non per permettere ad alcune donne di abortire. Senza quei soldi alcune mamme avrebbero abortito comunque, ma altre no. Dunque queste iniziative del Presidente, al pari di altre di altri politici, rientrano nella condizione di necessità indicata dal canone 1329: «se senza la loro opera il delitto non sarebbe stato commesso».
Ma non si può escludere che una forma di collaborazione necessaria sia anche quella del politico che, pur non firmando nessuna legge che agevoli l’aborto e pur non stanziando fondi pro-aborto, si esprime a favore dell’aborto. Le sue parole potrebbero essere quell’incentivo, necessario seppur non sufficiente, per motivare qualche donna – ne basta una – a ricorrere all’aborto. Insomma la goccia indispensabile per far traboccare il vaso.
Torniamo al canone 915 il quale vieta di dare la comunione non solo agli scomunicati – e tra questi abbiamo visto che ci sono anche coloro che collaborano materialmente e moralmente all’aborto fornendo un apporto necessario – ma anche a tutti coloro «che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto». Il politico che si esprime a favore dell’aborto persevera in un peccato grave manifesto? Partiamo da una riflessione. Abortire è peccato grave. Consigliare di abortire è ugualmente peccato grave. Il politico che pubblicamente e in modo continuativo appoggia le pratiche abortive non solo le approva, ma le diffonde in modo esteso: insomma è come se le consigliasse ad un numero indeterminato di persone. Approvare e, ancor di più, voler diffondere l’aborto è peccato grave. Posto che sussistano le altre due condizioni – piena avvertenza e deliberato consenso – il politico verserebbe in stato di peccato mortale, condizione che gli impedirebbe di comunicarsi, se prima non si fosse confessato.
Se comunque il politico si recasse all’altare per comunicarsi come dovrebbe comportarsi il sacerdote? Dovrebbe vietargli la comunione proprio perché il suo appoggio pubblico all’aborto lo fa rientrare di diritto tra coloro «che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto», così come ricordato dalla Nota del 2004 dell’allora cardinal Ratzinger inviata ai vescovi americani (qui il testo originale in inglese). La dottrina in genere fa rientrare in questa categoria, tra gli altri, i conviventi, i cattolici sposati solo civilmente, i divorziati risposati. Se al convivente non sposato si deve rifiutare la comunione, a fortiori la si deve rifiutare al politico pubblicamente favorevole all’aborto, così come deve essere rifiutata a coloro che sono aderenti in modo notorio a ideologie atee e materialiste: l’ideologia pro-aborto non rientra forse di diritto tra le ideologie materialiste?
Un nota bene: è sufficiente per rifiutare la comunione che il peccato sia grave e manifesto, non rilevando che il politico sia consapevole di questa gravità o che abbia scelto liberamente di appoggiare l’aborto. Anche se mancano queste due condizioni – consapevolezza e libertà – che incidono grandemente sulla responsabilità individuale diminuendola assai o addirittura cancellandola (più in teoria che in pratica), comunque il sacerdote deve rifiutare la comunione perché l’appoggio pubblico all’aborto configura una situazione oggettivamente disordinata in contrasto con la santità dell’Eucarestia, nonché con la dignità personale, e che può provocare scandalo: configurerebbe una sorta di benedizione eucaristica all’aborto. Così l’allora cardinal Ratzinger si espresse nella Nota del 2004, citata nella recente lettera dalla CDF ma disattesa dalla stessa nelle indicazioni pastorali: «“il ministro della Santa Comunione deve rifiutarsi di distribuirla” (cfr. Dichiarazione del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi “Santa Comunione e Cattolici Divorziati Civilmente Risposati” [2002], nn. 3-4). Questa decisione, propriamente parlando, non è una sanzione o una pena. Né il ministro della Santa Comunione sta giudicando la colpa soggettiva della persona, ma piuttosto sta reagendo alla pubblica indegnità della persona a ricevere la Santa Comunione a causa di una situazione oggettiva di peccato».
E se il politico avesse cambiato idea sull’aborto? In primis avrebbe il dovere, per spirito risarcitorio, di rendere pubblica questa sua conversione. Se non lo avesse fatto e, però, si fosse confessato promettendo di farlo in futuro e il sacerdote fosse ignaro di queste condizioni, giustamente lo stesso sacerdote dovrebbe comunque rifiutare la comunione, pensandolo peccatore grave manifesto. Se il sacerdote invece fosse edotto della presenza di queste condizioni sarebbe comunque opportuno, per evitare scandali, che la comunione avvenisse in privato, fintantoché il politico non avesse comunicato pubblicamente la sua avversione ad ogni forma di aborto.
In breve la comunione deve essere rifiutata al politico pro-aborto sia perché scomunicato dato che è complice dell’aborto fornendo un apporto necessario sia perché persevera in peccato grave manifesto. Questo avrebbe dovuto rimarcare la lettera della CDF per tutelare in primis la santità infinita dell’Eucarestia, in secondo luogo la fede di tutti e in terzo luogo l’incolumità spirituale e anche fisica dello stesso politico come ricorda San Paolo: «Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna». E attenzione a come conclude: «È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti» (1, Cor. 11, 27-30). Paolo non sta parlando solo della morte spirituale, ma anche fisica.