Il “diario di bordo” di Stuart verso l’eternità
Malato in fase terminale, Stuart Rogerson condivide su Twitter il proprio cammino di fede, vedendo nella malattia un’occasione per aiutare anche gli altri ad affrontare cristianamente la morte. Uno “scandalo” per la mentalità contemporanea che vorrebbe nascondere il destino con cui, prima o poi, tutti dovremo fare i conti.
Stuart Rogerson è un settantenne scozzese in pensione che usa Twitter, e fin qui nulla di strano. Nella sua “bio” si legge: «Nonno, convertito al cattolicesimo (nel 2013) dopo essere stato ministro della Chiesa di Scozia. Felicemente sposato, con tre figlie e otto nipoti». Insomma, un cristiano fervente, con una vita ricca di gioie familiari, e che ricorre ai social per comunicare la sua fede. Ma l’ultima riga è rivelatrice e riguarda non solo lui ma tutti: «Dying of oesophageal cancer». Al classico elenco di “chi sono/cosa faccio”, Stuart aggiunge senza mezzi termini qualcosa che di solito si tende a negare, a nascondere o a esorcizzare: «Morente di cancro all’esofago».
La malattia terminale di Stuart Rogerson è la sua ennesima “vocazione”, dopo il ventennio come ministro presbiteriano e l’ingresso nella Chiesa cattolica avvenuto nove anni fa, ma il cui seme era stato piantato molti anni prima. Già intorno al 1978, racconta a The Scottish Catholic, «sentivo che Dio mi chiamava a diventare cattolico». Ma c’era di mezzo l’imminente ordinazione nella Chiesa di Scozia, la sua famiglia, vari ostacoli che di anno in anno rinviavano l’apertura di quella porta. Fino a confidare questo segreto desiderio (latente sin dagli studi giovanili sulla Chiesa primitiva e dalla lettura di Sant’Agostino) al parroco cattolico. Il 13 dicembre 2013, nel soggiorno della propria casa, Stuart Rogerson è stato accolto nel seno di Santa Romana Chiesa, «perché per quanto ci appaia incredibile – afferma – è la dimora della Verità apostolica e del Santissimo Sacramento».
Da decenni Stuart aveva chiesto a Dio di poter giungere alla morte consapevolmente. L’esatto contrario di quanto ci si augura frequentemente, sperando di morire “nel sonno” o almeno “senza accorgersene”, con la conseguenza che al moribondo si evitano i conforti religiosi perché “altrimenti si spaventa”. Del resto, la sua salute precaria lo aveva accompagnato sin da giovane, già rischiando di morire prematuramente in passato. Ed erano state proprio le condizioni fisiche a impedirgli nel 1999 di poter proseguire il ministero. Dall’anno scorso Stuart ha maturato la consapevolezza di essere vicino alla fine e non pensava neanche di arrivare al Natale. Invece, ha visto anche il nuovo anno e il mercoledi delle Ceneri, giorno in cui gli è stato diagnosticato un cancro all’esofago, con una speranza di vita di tre mesi (che nel frattempo sono abbondantemente trascorsi).
#DyingUpdate (aggiornamenti sulla morte) è l’hashtag che introduce alcuni dei suoi tweet più personali, alternati a versetti della Scrittura e pensieri spirituali. «Non sto morendo, sto tornando a casa», dichiara a Pillar Catholic. Per lui il social è una sorta di “diario di bordo” del suo estremo viaggio, che in fondo è anche il nostro, se non fosse che noi evitiamo di pensarci, mentre per lui ogni mese o giorno è un surplus inatteso: «Inaspettatamente è ottobre: sono passati 8 mesi da quando me ne erano stati dati tre da vivere», ha scritto all’inizio di questo mese (e sempre con l’hashtag #DyingUpdate). Eppure, la sua non è un’attesa inerte o – peggio – disperata, né dominata dal pensiero angoscioso di essere giunto alla fine. È persuaso che il Signore abbia risposto alla sua preghiera permettendogli di aiutare anche gli altri a prepararsi al momento decisivo.
L’account di Stuart è divenuto un moderno memento mori per i suoi 8mila followers: «Dai commenti che ricevo sembra che io stia aiutando molte persone a comprendere la natura di quella che spero sia una buona morte cristiana». Non mancano naturalmente i momenti oscuri, come nel tweet di due settimane prima, in cui scriveva di aver rivisto la luce dopo una «profonda oscurità e aridità spirituale». Tuttavia, «Col passare del tempo, morire diventa nient’altro che la normale vita quotidiana». La sua giornata è scandita dalla liturgia delle ore e dalla Messa (che segue online, non potendosi muovere), dedicando buona parte del tempo alla preghiera e alla meditazione e offrendo le sue sofferenze per gli altri, per coloro che gli scrivono via Twitter come per le necessità del mondo e per la pace.
Stuart sa che non lo attende una fine: «Il mio corpo sta morendo, si sgretola, scompare, ma non io. Dio che mi ha dato la vita, ora mi sta preparando a nascere dal grembo di questa vita alla vita eterna». Parole che possono suonare astratte per molti di noi letteralmente risucchiati dalle (legittime) occupazioni e preoccupazioni di questa terra, ma dimenticando che – anche se sani –non vivremo quaggiù per sempre. Piaccia o no, quel «dying» (morente) vale anche per noi; per questo tra i credenti era diffusa la preoccupazione di giungere alla morte preparati, non all’improvviso: «A subitanea et improvisa morte, libera nos Domine». Allo scopo ci si raccomandava alle preghiere dei parenti e all’intercessione dei santi, in modo speciale al patrocinio di San Giuseppe, patrono per eccellenza della “buona morte”.
Quella che può sembrare tutt’al più una testimonianza edificante, è in realtà “scandalosa” per la mentalità contemporanea in cui appaiono impensabili discorsi non solo sulla morte in generale, ma sulla propria morte. Impensabile anche per una spiritualità orizzontale, ampiamente diffusa, che riduce il fattore religioso a impegno prevalentemente sociale, amputato della dimensione escatologica con cui pure, presto o tardi, dovremo fare i conti – con timore e tremore, ma un po' rassicurati da questa candela che risplende nella lontana Scozia e, mentre si spegne, illumina anche noi.