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SIRIA

Il destino dei curdi traditi dall'Occidente

I curdi hanno costituito la prima linea di resistenza contro il Califfato. Ma dopo gli applausi per la loro valorosa resistenza, sono stati scacciati da Kirkuk dagli iracheni. E adesso vengono scacciati da Afrin per mano dei turchi. I curdi stanno pagando il prezzo di essersi fidati troppo degli alleati occidentali.

Esteri 23_01_2018
Truppe turche e civili a Hassa, al confine siro-turco

C’è molto di paradossale nell’evolversi della situazione dei curdi di Siria e Iraq, a lungo unici in grado di contrastare il Califfato con l’aiuto della Coalizione internazionale quando l’esercito di Damasco si ritirava e quello di Baghdad sbandava.

Le battaglie per difendere Kobane, Erbil e Kirkuk davanti alle offensive dello Stato Islamico hanno lasciato il posto alle rappresaglie nei confronti delle aspirazioni nazionaliste curde. In Iraq sono state frustrate dalla pressione militare delle truppe regolari e soprattutto delle milizie sciite sostenute dall’Iran che hanno sottratto ai curdi i territori strappati con le armi all’Isis e vanificato il referendum che nel settembre scorso aveva sancito la piena indipendenza del Kurdistan. In Siria sono soprattutto i turchi a colpire le aree in mano ai curdi lungo i confini, confermando che Erdogan non è disposto ad accettare una regione (Rojava) indipendente, come di fatto è ora, che minaccerebbe la stabilità turca incoraggiando l’etnia curda alla rivolta.

Il Partito Democratico Curdo di Siria (PYD) del resto è alleato del Partito curdo dei Lavoratori (PKK) che da anni lotta per l’indipendenza della regione curda cdi Turchia. Per questo i raid aerei e dell’artiglieria turca contro “i terroristi” nell’énclave curda di Afrin, nel nord-est della Siria, potrebbero rappresentare solo l’inizio di una più vasta operazione contro le Forze Democratiche Siriane (FDS), alleanza tra le milizie del PYD (Forze di Protezione Popolare - YPG) e milizie tribali arabe sostenute con 2 miliardi di dollari di forniture di armi e qualche migliaio di consiglieri militari dagli Stati Uniti.

Circa i risvolti internazionali della crisi curda in Iraq e Siria due aspetti emergono prepotentemente. L’Occidente che aveva celebrato la resistenza contro il Califfato e “l’epopea di Kobane” (in cui Ankara aiutò palesemente l’Isis, finanziandolo con l’acquisto del petrolio estratto dai pozzi occupati e curandone persino i feriti negli ospedali turchi) oggi sembra aver dimenticato la causa curda. Persino i militari della Coalizione schierati a Erbil (italiani inclusi) hanno accettato senza battere ciglio i diktat di Baghdad che hanno respinto i peshmerga fuori dai territori liberati. 

Nulla di nuovo, per carità. In Europa abbiamo la memoria corta e del resto nel complicato puzzle siriano Ue e Usa non erano forse fianco a fianco contro Bashar Assad? Quindi erano implicitamente schierati con i ribelli che avrebbero voluto portare la sharia a Damasco, inclusi i qaedisti e i jihadisti del Califfo. I curdi d’altra parte stanno pagando il prezzo di gravi errori compiuti, forse nella convinzione di poter contare sul supporto di Washington e dell’Occidente. I peshmerga hanno attuato una feroce, anche se poco pubblicizzata, pulizia etnica in diverse regioni irachene del nord e soprattutto a Kirkuk, dove sono stati cacciati moltissimi arabi, illudendosi che a guerra finita Baghdad avrebbe accettato di perdere il controllo di una delle sue più ricche regioni petrolifere. In Siria l’errore di diventare la “fanteria sacrificabile” degli Stati Uniti non è stato meno grave e la battaglia di Afrin rappresenta probabilmente solo un’anticipazione del conto che le FDS/YPG dovranno pagare. Le armi, i consiglieri militari e le forze speciali americane hanno permesso ai curdi di occupare territori siriani ben più ampi di quelli abitati dalla loro etnia, incluse diverse aree petrolifere che Damasco vuole riprendersi. Washington ha impiegato le milizie delle SDF per impedire ad Assad e ai russi di liberare tutto il territorio siriano creando le basi per una Siria di fatto spartita. Non è un caso che l’attacco turco abbia preso il via dopo che Washington aveva reso noto che le sue truppe sarebbero rimaste in Siria a tempo indefinito e avrebbero addestrato e armato 30 mila “guardie di frontiera” curde. Un numero eccessivo per il solo compito di presidiare il confine turco. Certo non deve sorprendere la determinazione americana a destabilizzare il Medio Oriente, ma è evidente che Ankara non esita a rischiare di compromettere definitivamente i rapporti con gli Usa pur di garantire i propri interessi nazionali.

A proposito di paradossi, l’offensiva turca vede combattere in prima linea contro i curdi le milizie siriane turcomanne e arabe, riunite sotto le bandiere dell’Esercito Siriano Libero che venne costituito in territorio curdo per abbattere il regime di Assad. Carne da cannone utile a Erdogan per attaccare i curdi limitando le perdite tra le sue truppe: non a caso tra i 54 caduti nei primi tre giorni di offensiva ad Afrin non ci sono soldati di Ankara, mentre il capo di stato maggiore dell'esercito turco, il generale Hulusi Akar, ha precisato che l'operazione Ramoscello d’ulivo (un nome che suona amaramente ironico) andrà avanti "finché l'ultimo terrorista non sarà neutralizzato".

Il presidente siriano, che in questi giorni sta schiacciando le ultime milizie jihadiste (qaedisti, salafiti e miliziani dell’IS) nella provincia di Idlib, ha condannato l’attacco turco ad Afrin come violazione dell’integrità territoriale siriana. Per la stessa fondata ragione Assad accusa Washington di aver invaso parte del suo territorio inviando truppe in appoggio ai curdi. Una violazione del diritto che stranamente la comunità internazionale non ha mai sanzionato. In prospettiva, Erdogan e Assad potrebbero invece trovare conveniente unire gli sforzi contro i curdi. Ankara vuole cacciarli dal confine turco costituendo una fascia di sicurezza di 30 chilometri di profondità che potrebbe assomigliare a quella costituita per molti anni dagli israeliani nel sud del Libano. Damasco vuole invece strappare alle FDS territori e pozzi petroliferi soprattutto nella provincia di Deir Ezzor. Entrambi, insieme ai russi, hanno oggi tutto l’interesse a ridurre ai minimi termini le forze curde anche con l’obiettivo di cacciare gli statunitensi dalla Siria.

Le prospettive sono quindi di un possibile ampliamento delle ostilità che farebbe rimpiangere ai curdi di Siria di essersi fidati di Washington respingendo la proposta di Assad, che offriva piena autonomia al Rojava ma al tempo stesso garanzie ai turchi con il presidio del confine affidato alle truppe di Damasco.