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IN VIAGGIO CON ENEA/ 20

Il custode Cerbero e i morti prima del tempo

Cultura 14_02_2022

Dopo l’intervento della Sibilla e la vista del ramo d’oro il traghettatore Caronte finalmente accoglie Enea nel vascello insieme con la profetessa. Il battello imbarca moltissima melma, ma alla fine, illesi, i due viandanti dell’aldilà vengono deposti sull’altra riva.

Vi si trova una porta attraverso la quale si deve passare per proseguire il cammino degli Inferi. A guardia c’è, però, un mostro orribile e gigantesco: Cerbero. Solo due versi bastano a Virgilio per descriverne in modo icastico le dimensioni:


Cerberus haec ingens latratu regna trifauci
personat aduerso recubans immanis in antro.

 Cerbero fa risuonare questi regni con il latrato che proviene dalle sue tre teste: il lettore stesso sente nelle orecchie e nella mente il rumore fastidioso del guardiano della grotta, riprodotto con suoni aspri e allitteranti («Cerberus […] latratu regna trifauci»). Le sue dimensioni sono amplificate in modo ipertrofico dall’uso dell’aggettivazione («ingens», «immanis»). La grotta ci si presenta visivamente dinanzi agli occhi grazie alla disposizione delle parole che occupano tutto il verso con un’efficace anastrofe («adverso […] in antro»).

Nel canto VI dell’Inferno Dante riprenderà il Cerbero virgiliano, rendendolo caricaturale – grottesco:

Cerbero, fiera crudele e diversa,

con tre gole caninamente latra

sovra la gente che quivi è sommersa.

Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,

e ’l ventre largo, e unghiate le mani;

graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.

Urlar li fa la pioggia come cani;

de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;

volgonsi spesso i miseri profani.

Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,

le bocche aperse e mostrocci le sanne;

non avea membro che tenesse fermo.

 

Il maestro di Dante lo rabbonisce gettandogli del fango nelle tre fauci.

Nel Cerbero dell’Eneide non compare nulla di comico, tutto nella sua descrizione è immane, gigantesco, smisurato, tremendamente serio e spaventoso. La Sibilla gli getta una focaccia «soporifera di miele e di farina drogata». I versi latini mostrano la repentinità e la rapidità del movimento delle tre teste del mostro che cercano di afferrare il cibo e, nel contempo, l’improvviso sonno che coglie il mostro:

[…] ille fame rabida tria guttura pandens

corripit obiectam atque immania terga resolvit.

Ovvero: «quello con fame rabbiosa, spalancando le tre gole, azzanna la focaccia che gli è stata gettata e scioglie la schiena mostruosa».

Cerbero si addormenta e occupa tutto l’accesso della grotta, proprio come la sua figura occupa tutto il verso

            Fusus humi totoque ingens extenditur antro.         

«E lui si distende a terra e riempie tutta la grotta». L’aggettivazione («ingens»), l’anastrofe («totoque […] antro»), l’uso dei verbi («fusus», «extenditur»), la disposizione delle parole nel verso («fusus» all’inizio di stichio, «antro» alla fine, ingens» esattamente al centro) sono solo alcuni degli artifici che plasticamente mostrano la drammaticità della scena. Questa è la lingua latina: non c’è aspetto formale che non sia al contempo funzionale alla comunicazione delle immagini, dei contenuti, delle finalità della poesia.   

Enea può finalmente cercare di entrare nella grotta, dopo che il guardiano si è addormentato e «si affretta a lasciare la riva del fiume senza ritorno». Enea accede così ad un luogo dove sono collocati i «morti prima del tempo». Tra questi si trovano tra gli altri i bambini morti in tenera età, i condannati a morte ingiustamente, i suicidi. I primi che Enea vede sono i bambini morti in fasce:  

si sentono subito voci e un immenso vagito: anime

di bambini che piangono sul limitare, ignari

della dolcezza di vivere e che, strappati al capezzolo,

un giorno nero ha rapito e sepolto in un lutto precoce.

Quale nostalgia, quale malinconia accompagna la narrazione virgiliana! Inconsolabile è la sofferenza per una cultura che non conosce il perdono, la misericordia e la redenzione! Chi potrà restituire gli anni della gioventù perduti e i propri cari strappati dalla nera morte? Il verso «un giorno nero ha rapito e sepolto in un lutto precoce» è la traduzione del latino «atra dies […] et funere mersit acerbo», verso che sarà mutuato da Carducci per rivolgersi al fratello Dante.

Non è un caso che il poeta si avvalga del verso virgiliano riferito ai bambini morti prima del tempo per il titolo: «Funere mersit acerbo». Anche suo fratello è morto prematuramente. Era il 1857 quando Dante Carducci venne ritrovato con un bisturi nel petto, dopo una lite col padre: fu un suicidio o il genitore lo uccise in preda ad uno scatto d’ira? Non si seppe mai la verità. Il padre morì l’anno seguente.

Carducci chiede al fratello Dante di accogliere suo figlio, che porta lo stesso nome, anche lui morto prima del tempo (a soli tre anni). Comprendiamo che il richiamo alla tradizione non è mai solo sfoggio di cultura. La memoria letteraria permette, infatti, di inserire l’esperienza individuale in comunione con una sofferenza universale.

Carducci compone un sonetto dai toni aulici e classicheggianti. Si ispira da un lato proprio ai toni dell’Ade pagano e antico, dall’altro richiama l’amato paesaggio toscano e gli altri cari defunti (il fratello e il padre). Scrive:

O tu che dormi là su la fiorita

Collina tosca, e ti sta il padre a canto;

Non hai tra l’erbe del sepolcro udita

Pur ora una gentil voce di pianto?

 

È il fanciulletto mio, che a la romita

Tua porta batte: ei che nel grande e santo

Nome te rinnovava, anch’ei la vita

Fugge, o fratel, che a te fu amara tanto.

 

Ahi no! giocava per le pinte aiole,

E arriso pur di vision leggiadre

L’ombra l’avvolse, ed a le fredde e sole

 

Vostre rive lo spinse. Oh, giú ne l’adre

Sedi accoglilo tu, ché al dolce sole

Ei volge il capo ed a chiamar la madre.

Innegabili sono l’icasticità delle immagini carducciane, la capacità di commuovere il lettore, la carica affettiva, la precisa scelta di un linguaggio classicheggiante che rende il lettore partecipe di un mondo antico e pagano. Senza la lettura della catabasi di Enea, senza la conoscenza dei morti prima del tempo nell’aldilà virgiliano al lettore sfugge l’universo di riferimento (o in altri termini le coordinate, le chiavi di accesso) della poesia.

Nella prossima puntata Enea incontrerà altri morti prima del tempo. Tra questi i suicidi per amore. Potrà rivedere, per l’ultima volta, Didone. Cosa le dirà? Che parole la donna gli riserverà?