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MESTIERI & LETTERATURA / 7

Il cuoco e la bottega dei poeti

L’arte della cucina presenta molte analogie con quella poetica, ma questa somiglianza emerge solo nell’Ottocento. In precedenza, nella letteratura era relegata a contesti comici dal Satyricon di Petronio al cuoco Chichibio narrato da Boccaccio, mentre nel Novecento il futurista Marinetti ne fa addirittura un manifesto.

Cultura 31_10_2022

La cucina è un’arte, perché implica il coinvolgimento dei sensi (quindi, uno sguardo estetico, nel senso etimologico), della mente e del cuore. È un momento di creazione, ovvero in greco poiesis da cui il nostro termine «poesia». C’è, quindi, una stretta somiglianza tra la cura della scelta delle parole da accostare per trasmettere un’esperienza, un’avventura, un sentimento o un’emozione e l’attenzione con cui si selezionano gli ingredienti per preparare un cibo e si dispone la pietanza nel piatto.

Eppure, questa consapevolezza della nobiltà dell’arte culinaria sorge solo nel tempo. Senz’altro, esistono già in epoca antica pregevoli ricettari di cucina, come il De re coquinaria di Apicio, ma il cuoco non trova spazio nella letteratura alta, può comparire solo come personaggio comico. Chi avrà cucinato la focaccina soporifera che Virgilio getta a Cerbero nell’Ade per farlo addormentare e poter così entrare nell’antro? I versi non lo raccontano, non danno spazio al cuoco che ha collaborato al viaggio nell’oltretomba.

Un secolo più tardi, nel Satyricon Petronio riserva molto spazio alla cena di Trimalchione, un ricchissimo liberto, privo di raffinatezza, di buon gusto e di cultura, un parvenu, un arricchito che rivela il suo aspetto ignorante e rozzo fin da quando entra in scena e ogniqualvolta parli. La narrazione e la descrizione della cena sono condotte con il registro comico grottesco. A tavola gli invitati sono serviti da valletti di Alessandria dalla voce stridula, che sottopongono i banchettanti alla pedicure proprio al momento della cena. È una scena comica e teatrale, più simile a «un coro di pantomima», piuttosto che a un «triclinio di un padre di famiglia» (capitolo 31).

Quando sono portati gli antipasti, si trovano tutti a tavola, tranne il padrone di casa. Sul vassoio campeggia un «asinello in corinzio con bisaccia» con «olive bianche in una tasca, nere nell’altra». L’asinello è ricoperto da due piatti con l’incisione del nome di Trimalchione e del peso dell’argento. Il padrone di casa vuole ostentare la ricchezza in tutti i modi. Vengono servite prelibatezze, come ghiri cosparsi di miele e papavero, susine di Siria con chicchi di melagrana.

Ad un certo punto, viene portato in tavola un maiale. Trimalchione si avvede che l’animale non è sventrato e pretende di far venire il cuoco, che è sottoposto ad un trattamento umiliante:

Ecco il cuoco davanti alla tavola con faccia triste, dice che sì, si è dimenticato di sventrarlo. «Come dimenticato? – urla Trimalchione – Si direbbe che si è dimenticato di metterci pepe e cumino. Spogliatelo».  Viene spogliato senza indugio e resta là più triste che mai in mezzo a due sferzatori. Tutti però cominciano a intercedere dicendo: «Sono cose che capitano. Ti preghiamo di perdonarlo, se lo farà un’altra volta, nessuno di noi ti pregherà più per lui». Io invece, che sono inflessibile, non potei trattenermi e chinandomi a parlare alle orecchie di Agamennone gli dissi: «Questo servo deve essere un fior fiore di lavativo. Come si fa a dimenticarsi di sventrare un maiale? Non gli perdonerei neppure se si trattasse di un pesce». Trimalchione invece rasserenatosi in volto, gli disse: «E va bene; visto che soffri di queste amnesie, sventralo qui davanti a noi». Rivestitosi, il cuoco prese un coltello e con mano tremante aprì di qua e di là il ventre del maiale.

Se nella letteratura odierna qualsiasi personaggio, a qualsiasi classe sociale appartenga, può essere trattato seriamente e con dignità,

questa è cosa del tutto impossibile nell’antichità […] (ove) vige la legge della tripartizione degli stili; tutta la bassa realtà, tutto quello che è quotidiano deve essere rappresentato solo comicamente, senza approfondimento problematico. In tal modo si pongono al realismo dei limiti molto ristretti (Erich Auerbach, Mimesis).

Per questo non possono essere trattati seriamente né le professioni ordinarie (dall’artigianato al mercante al cuoco) né tantomeno le scene d’ogni giorno, come la bottega, il campo, l’officina. Il popolo e la sua vita sono esclusi dal racconto drammatico e serio della vita. Nell’antichità esiste la rigida tripartizione degli stili: alto, medio e umile. I tre stili vengono utilizzati per affrontare rispettivamente argomenti, contesti e personaggi altolocati, medi o bassi.

Tredici secoli più tardi anche Boccaccio riserva uno spazio comico al cuoco Chichibio nella sesta giornata dedicata ai motti di spirito. Già il nomignolo significa «cervello da uccellino», «buono a nulla». Il cuoco del nobile Corrado Gianfigliazzi cucina una gru per il suo signore, ma dona una coscia a Brunetta, una servetta di cui si è invaghito. Chichibio dovrà affrontare le ire di Corrado, ma con una «pronta e sollazzevol» battuta si rappacificherà col signore. Anche in questo caso, il cuoco è mestiere che viene trattato con un registro basso e la dimensione del cibo è associata nella novella a quella della sessualità.

Alla fine dell’Ottocento, nel Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand la figura del cuoco è accostata a quella del poeta.  Il secondo atto è ambientato nella bottega del pasticcere-rosticciere Ragueneau che ha un ampio laboratorio. Il maestro pasticcere offre le indicazioni del mestiere ai giovani apprendisti avvalendosi di metafore e di similitudini poetiche:

Queste paste sono tagliate male: la cesura va nel centro, tra gli emistichi! […] E tu, su questo spiedo smisurato, alterna alle umili galline superbi tacchini – come i poeti rinascimentali alternavano i grandi versi ai più modesti, e metti al fuoco strofe di arrosti!

Ragueneau conversa con i poeti nella sua bottega e scrive in versi la ricetta delle tartine mandorlate:

Batti l’uovo fino a quando
non diventi zabaione
e procedi poi versando
una dose di limone. […]

Nella stessa pasticceria Cyrano dialoga con Rossana illudendosi, per un solo istante, che la donna sia innamorata di lui.

Il futurista Marinetti dedica un manifesto anche alla cucina e col tono dissacratorio e ribelle che lo contraddistingue propone l’abolizione della pastasciutta, «assurda religione gastronomica italiana», e «del volume e del peso nel modo di concepire e valutare il nutrimento». Marinetti consiglia, infatti, una tavola apparecchiata con armonia e con il giusto abbinamento di «sapori e colori delle vivande», l’originalità delle stesse, l’uso «dell’arte dei profumi per favorirne la degustazione», l’ascolto della musica tra una vivanda e l’altra, l’uso dosato della poesia a tavola per accendere i sapori della tavola, «la creazione dei bocconi simultanei e cangianti che contengano dieci, venti sapori da gustare in pochi attimi». La politica e la retorica devono essere, invece, banditi a tavola. La sua proposta è presaga di contemporanei sviluppi della cucina. Nel contempo, il futurista comprende che la poesia ben si accosta alla cucina, come nel Cyrano de Bergerac, per un gustoso aperitivo letterario.