Il Cottolengo e la Piccola Casa della Divina Provvidenza
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Essere vicino ai malati bisognosi: questa la missione di san Giuseppe Benedetto Cottolengo. Una missione che il sacerdote piemontese visse come una chiamata celeste, dopo aver visto morire una donna incinta che era stata rifiutata da due strutture. E che lo portò a fondare la Piccola Casa della Divina Provvidenza.
Casa vuol dire prima di tutto famiglia, accoglienza. Ci si sente a casa quando si è avvolti dall’amore dei genitori o dei parenti. Quando si indica il termine “casa” - si sa - non si indica solamente un luogo bensì un’“idea d’amore”. E proprio in una semplice casa inizierà una delle avventure più affascinanti della Chiesa italiana di inizio Ottocento, la Piccola Casa della Divina Provvidenza di san Giuseppe Benedetto Cottolengo.
Siamo in Piemonte, agli inizi del XIX secolo. Terra d’industria e di fermenti economici, quella piemontese, ma allo stesso tempo colma di contraddizioni sotto diversi aspetti: l’Ottocento, infatti, con i suoi progressi industriali e con la sua nuova concezione del lavoro sta provocando non pochi disagi sociali. Sono questi i giorni di innumerevoli agitazioni tra le classi sociali e la crisi non può che ripercuotersi sul piano economico. In quest’epoca di grande povertà nelle campagne, Torino diviene meta prediletta per molte persone in cerca di vita migliore. È questa l’epoca di don Bosco e di Leonardo Murialdo, Giuseppe Cafasso, Francesco Faà di Bruno, sacerdoti che intendono contribuire, con la loro opera, a un risanamento della società dando concretezza, corpo, alle mirabili pagine della Dottrina sociale della Chiesa.
Ed è proprio in questo contesto storico che si muove san Giuseppe Benedetto Cottolengo - domani la sua memoria liturgica - che passerà alla storia come il fondatore della Piccola Casa della Divina Provvidenza. Era il 17 gennaio 1828 quando a Torino, in un appartamento sito in via Palazzo di Città, nel caseggiato comunemente denominato Volta rossa, Giuseppe Benedetto Cottolengo dava inizio a un’attività sociale destinata a soccorrere persone ammalate che si trovavano in gravi difficoltà economiche. Ma prima di arrivare alla costituzione di questa realtà, il Cottolengo dovrà passare per una dura prova.
È il 2 settembre 1827 quando - aveva 41 anni all’epoca - avviene un episodio che gli sconvolge l’esistenza. Don Giuseppe Benedetto Cottolengo, quel giorno di settembre, era stato chiamato al capezzale di una donna francese, tale Giovanna Maria Gonnet, che si era recata con la propria famiglia nel capoluogo piemontese. La donna stava portando avanti la gravidanza del suo quarto figlio. Malata e febbricitante perché affetta da tubercolosi, si era recata all’Ospedale Maggiore per chiedere di essere ricoverata. Qui la rifiutano e la mandano all’Ospizio della Maternità. Anche in questo caso, altro rifiuto. Purtroppo, per la donna ormai tutto è perduto. Il marito allora cerca disperatamente un sacerdote affinché possa impartirle l’estrema unzione. Al suo letto di morte, accorre proprio il Cottolengo che assiste alla morte della donna e della nascitura.
Il futuro santo, davanti a una simile scena, rimane senza respiro; corre verso la vicina chiesa del Corpus Domini (della quale, dal 1818, era canonico) e davanti a un quadro della Madonna delle Grazie esclama: «Mio Dio, perché? Perché mi hai voluto testimone? Cosa vuoi da me? Bisogna fare qualcosa». A un certo punto il suo volto s’illumina: «La grazia è fatta! La grazia è fatta: sia benedetta la Santa Madonna!». Il santo sacerdote piemontese aveva compreso, per ispirazione, la missione che lo attendeva: essere vicino ai malati bisognosi; fondare la Piccola Casa della Divina Provvidenza che al suo sorgere avrà come nome quello di Deposito de' poveri infermi del Corpus Domini.
Affitta perciò due piccole stanze di un appartamento sito nel palazzo di fronte alla chiesa; due piccole camerette, ma già colme d’amore. Fra queste mura saranno infatti accolti subito tutti quei malati che venivano all’epoca rifiutati dagli ospedali: orfani, sordomuti, invalidi, persone con gravi problemi fisici e psichici. Le camere, poi, grazie anche alla beneficenza di una giovane vedova, tale Maria Nasi Pullini, diventeranno in breve tempo nove. Ad affiancare per i primi tempi il Cottolengo ci sarà un gruppo di giovani ragazze disposte a servire i bisognosi: molte di queste diventeranno poi suore vincenziane.
Ma l’opera del Cottolengo dovrà superare una prova non facile: era scoppiata in Piemonte un’epidemia di colera e gli abitanti torinesi vicini al Deposito de' poveri infermi del Corpus Domini temevano per la propria salute: bisognava andare via dal centro del capoluogo piemontese. Quella che poteva sembrare una sventura si rivelerà invece una vera e propria grazia: l’ospedale fu trasferito in periferia, nella zona di Valdocco. Sabato 27 aprile 1832, il sacerdote trasportava, su un piccolo carro trainato da un asino, un giovane colpito da cancrena: sarà lui il primo ospite di quella che diventerà la Piccola Casa della Divina Provvidenza; anche questa volta si tratta di una casa, proprietà dei fratelli Farinelli.
Pian piano l’opera del Cottolengo prende sempre più corpo fino ad arrivare al 7 agosto 1837 quando il Cottolengo miracolosamente acquisterà la casa, una cappella e l’ospedale adiacente fatto costruire dagli stessi Farinelli. L’iniziale struttura dove prima si appoggiava Cottolengo non bastava a contenere tutti i malati e, dunque, quella che era la Piccola Casa diventerà una grande casa. Ma come è stato possibile tutto ciò? Il Cottolengo non disponeva di denaro adeguato per dare vita a un’impresa che ancora oggi continua il suo servizio agli ammalati. La risposta è una sola e la offre il sacerdote stesso: «La Provvidenza Divina pensa, dirige, provvede a tutto; io sono un semplice operaio». E proprio per la Provvidenza passerà l’immensa e importante opera di Cottolengo: «Nella sola Divina Provvidenza confidar deve l'uomo, sicuro che questa nel governo universale del mondo non manca, né mancherà mai; in questa si deve sperare, su di questa come su di sodo e immobile fondamento si deve poggiare, a questa pienamente affidarsi, e su di essa gettare ogni pensiero, desiderio e speranza», così spiegherà in uno dei suoi discorsi.
Non è un caso, allora, che proprio alla porta era affissa una targa con su scritto il motto Charitas Christi urget nos. Sarà proprio la forza in Cristo - ricorda molto il motto paolino «Tutto posso in Colui che mi dà forza» (Fil 4,13) - che riuscirà a creare la forza della Piccola Casa: un luogo d’amore in cui ogni malato non rappresentava solamente una persona, bensì il Cristo sofferente sulla Croce. Il santo piemontese riuscirà a organizzare la vita degli ospiti malati e dei loro assistenti in un modo del tutto originale, innovativo. Alla base di tutto vi era, infatti, il concetto di famiglia affinché tutti potessero sentirsi “utili” agli altri: malati e sani in un fraterno e reciproco aiuto. Casa vuol dire prima di tutto famiglia, accoglienza.