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FINE VITA

Il compito del medico? Lo indica il codice penale

Nel rapporto medico-paziente, il primo - si dice - deve agire secondo scienza e coscienza. Ma la deontologia e la legge ordinaria pongono dei limiti.

Attualità 30_03_2011
ospedale

Intorno alla querelle molto attuale del rapporto medico-paziente spesso si insiste giustamente che  il primo debba operare in scienza e coscienza. A questo riguardo però è opportuno ricordare che l’operato del medico non è svincolato da qualsiasi regola: agire secondo scienza e coscienza significa rivolgersi alla cura dei pazienti all’interno di un perimetro normativo disegnato dal Codice di deontologia medica e prima ancora previsto dal nostro ordinamento giuridico. In merito a quest’ultimo vi sono alcune norme, di carattere penale e non, che interessano da vicino la professione medica. Vediamone qualcuna.


Non impedire uguale a provocare.
L’art. 40 del Codice Penale recita: Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. Il medico ha come responsabilità giuridica di impedire la morte del paziente o la lesione della sua salute. Se non si adopera con tutti i mezzi possibili e necessari per scongiurare eventi dannosi per il paziente incorre nel reato sopra citato. Ovviamente questo non significa che se il malato non guarisce o peggio muore il medico si trovi nei guai. I problemi di ordine penale ci saranno solo se il medico non si sia attivato diligentemente, non se i risultati dei suoi sforzi andranno a buon fine. L’onere di prestare le cure in punta di diritto non sussiste, e quindi non si applica l’art. 40, se il paziente cosciente rifiuta le cure stesse. Il rifiuto dei trattamenti sanitari deve avvenire però senza collaborazione attiva del medico. La signora Maria, la donna che nel 2004 morì a seguito del rifiuto dell’amputazione del piede, fece tutto da sé: non c’è stata collaborazione dei medici i quali si sono fermati di fronte al suo rifiuto tutelato dalla legge. Fu lei a sottrarsi alle cure, non furono i medici a sottrarle le terapie. Nel caso di Welby invece ci sono state condotte positive e collaborative da parte del dott. Riccio al fine di provocarne la morte – sedazione e stacco del respiratore – ed è per questo motivo che il GIP La Viola configurò il reato di omicidio del consenziente. Questo è l’aspetto importante: la rinuncia dei trattamenti deve quindi avvenire senza l’apporto positivo del medico.

Immunità penale?
Leggiamo un altro articolo del Codice Penale, il 50: “Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne.” Qualcuno applicando questa disposizione sui temi di fine vita potrebbe tradurre il suo contenuto così: se io medico stacco la spina con il consenso dell’avente diritto, cioè del paziente, non posso essere incriminato per omicidio del consenziente. Questa interpretazione è erronea perché l’articolo in oggetto fa esplicitamente riferimento a quei diritti di cui il titolare può validamente disporre. La vita è bene indisponibile ex artt. 579, 580 cp e 5 cc e dunque questo articolo non si può applicare nel caso in cui il medico con l’assenso del moribondo provoca la sua morte. Se lo fa si configura il reato di omicidio del consenziente.


La legittima difesa.
L’art. 52 cp concerne la legittima difesa: “Non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta”. C’è una dottrina che sostiene questa interpretazione assai interessante e suggestiva: anche di fronte al rifiuto cosciente del paziente in merito alla somministrazione di terapie salvavita il medico può legittimamente intervenire applicando le stesse appellandosi all’istituto della legittima difesa. Io medico difendo il bene vita del paziente contro l’aggressione ingiusta che proviene dal titolare del bene medesimo, cioè il paziente, proprio perché la vita è un bene indisponibile, bene quindi che non è soggetto alla disponibilità assoluta di nessuno, nemmeno del malato terminale.


Le cinture di sicurezza.
La qualificazione della vita come “bene indisponibile” poi motiva altre scelte normative che hanno carattere coattivo. La legge 78/833 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale vieta trattamenti sanitari contro la volontà del paziente salvi i casi di necessità. C’è da chiedersi se un “caso di necessità” non sia proprio una situazione in cui si paventi un serio pericolo di morte. In questo frangente quindi il medico potrebbe sottoporre a trattamenti salva vita il paziente stante il suo dissenso. La stessa ratio giuridica la ritroviamo ad esempio nella disciplina normativa che regola i parametri di sicurezza sui luoghi di lavoro e nelle disposizioni sulla circolazione stradale: obbligo di mettere le cinture di sicurezza, limiti di velocità, distanze di sicurezza etc. Tutti comportamenti da assumere coattivamente anche contro la volontà del lavoratore o del guidatore proprio al fine di tutelare la sua salute e la sua vita. Allora il parallelo è quasi scontato: se vi è un obbligo di prevenzione in capo al lavoratore e al guidatore per evitare possibili, ma non certi, rischi alla sua salute-vita, a maggior ragione sarà legittimo imporre cure salvavita laddove con certezza il paziente versi in stato di pericolo di morte. Detto in altri termini se sono legittime le misure coattive per tutelare anche il solo bene “salute” da possibili danni futuri, a fortiori saranno ancor più legittime quelle misure coattive mediche per tutelare il bene “vita”, più importante del bene “salute”, da un pericolo attuale e letale. Questa conclusione logica però cozza con l’art. 32 della Costituzione e la disciplina del consenso informato che permettono di non sottoporsi a trattamenti non voluti. La contraddizione rimane evidente e per ora insanabile.

Argomenti indigesti.
Certo, questi sono argomenti duri da mandar giù per la nostra sensibilità ultra libertaria dove l’individuo è padrone assoluto della sua vita. Sapere che qualcuno può metterci le mani addosso contro la nostra volontà ci infastidisce non poco. Però occorre domandarsi, e sta qui il punto, se la nostra volontà coincide con il nostro bene oggettivo.