Il cavaliere inesistente e la ricerca della verità
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Torrismondo contesta l’autenticità del titolo di cavaliere ottenuto da Agilulfo, narrando una storia che appare a tutti una rivelazione. Ne scaturisce una ricerca, che vede i protagonisti in viaggio per raggiungere una certezza...
Una sera, a cena avviene un fatto che in maniera imprevista ribalta l’immagine che tutti si sono costruiti sul cavaliere inesistente.
Agilulfo è seduto al banchetto imperiale come tutti gli altri, adempiendo con cura meticolosa il cerimoniale. «All’angolo della tavola dov’è Agilulfo […] tutto procede pulito, calmo e ordinato, ma ci vuole più assistenza di servitori per lui che non mangia, che per tutto il resto della tavola». Il cavaliere interviene in tutte le conversazioni a tempo, ascoltando i paladini che si vantano per le loro imprese. A volte li confuta mentre inventano imprese mai compiute, come il prode Orlando che sostiene di aver conquistato la spada Durlindana in battaglia, mentre, in realtà, l’arma è stata consegnata dai nemici nelle trattative cinque giorni dopo la battaglia d’Aspromonte.
Dopo che per l’ennesima volta Agilulfo ha ridotto le imprese altrui a «un normale episodio di servizio», il paladino Ulivieri lo invita a non «guardare tanto per il sottile», perché è normale che le azioni militari siano amplificate nella memoria popolare. Il cavaliere replica che le sue imprese sono tutte autentiche e documentate in modo inoppugnabile. Allora Torrismondo di Cornovaglia contesta l’autenticità del titolo di cavaliere da lui ottenuto in quanto la figlia del re di Scozia, di nome Sofronia, salvata da Agilulfo, non era all’epoca vergine. «Il codice della cavalleria allora vigente prescriveva che chi aveva salvato da pericolo certo la verginità d’una fanciulla di nobile lignaggio fosse immediatamente armato cavaliere; ma per aver salvato da violenza carnale una nobildonna non più vergine era prescritta solamente una menzione d’onore e soldo doppio per tre mesi».
L’affermazione di Torrismondo offende la dignità di Agilulfo e, al contempo, l’onore di Sofronia. Come prova, Torrismondo adduce il fatto che Sofronia è in realtà sua madre, «disconoscendo la sua filiazione dal duca di Cornovaglia».
La storia che narra dinanzi a tutti appare come una rivelazione: rimasta incinta a soli tredici anni, per timore delle ire dei genitori, Sofronia fugge dal castello reale di Scozia, partorendo in una brughiera. Alleva il figlio fino a cinque anni in mezzo ai campi e alle boscaglie fino a quando non entra in scena Agilulfo a interrompere il più bel periodo della vita di Torrismondo. Sofronia incontra due briganti, che forse vogliono abusare di lei. Agilulfo li sgomina, mentre Sofronia viene condotta al più vicino castello, quello di Cornovaglia. Il figlio viene adottato e riconosciuto come figlio del duca e della duchessa di Cornovaglia, per salvare l’onore della famiglia reale di Scozia. Il vero padre è ignoto, appartiene all’Ordine dei cavalieri del Sacro Graal, i cui membri sono tutti soggetti al voto di castità: per questa ragione Torrismondo non verrà mai riconosciuto come figlio. Torrismondo afferma di aver sempre vissuto gravato da una montagna di menzogne. Finalmente, ora ha potuto rivelare la verità.
Se fossero vere queste affermazioni, il cavalierato di Agilulfo verrebbe meno, così come tutti i riconoscimenti a lui attribuiti successivamente non avrebbero alcun motivo di esistere. Agilulfo parte alla ricerca di Sofronia per dimostrare che all’epoca in cui la ragazza venne da lui salvata dall’aggressione dei briganti era ancora vergine. Innamorata di lui, l’unico che può dare un senso alla sua vita e alla sua guerra, Bradamante lo segue. A sua volta, è inseguita da Rambaldo che la ama e che si trova lì in battaglia solo per lei tanto che grida: «Dove vai, dove vai, Bradamante, ecco io son qui, per te, e tu vai via!».
Rambaldo è convinto che l’amore umano possa colmare totalmente l’abisso di vita e di felicità che alberga nel cuore dell’uomo. È convinto di amare quella donna e si chiede cosa lei possa cercare d’altro. Ma, riflette il narratore, Rambaldo non ama davvero, è innamorato «di sé, di sé innamorato di lei, è innamoramento di quel che potrebbero essere loro due insieme, e non sono». Rambaldo ne è convinto: «La guerra la combatti bene soltanto dove tra le punte delle lance intravedi una bocca di donna, e tutto, le ferite il polverone l’odore dei cavalli, non ha sapore che di quel sorriso».
Torrismondo parte a sua volta, «triste anche lui, anche lui pieno di speranza» con il desiderio di ritrovare la madre, il bosco e l’infanzia felice. La ricerca vede tutti i personaggi in viaggio per raggiungere una certezza. Un tempo, i grandi paladini, Orlando, Rinaldo, Astolfo, partivano per compiere gesta che finivano poi sui cantari dei poeti. Oggi i veterani non si spostano che per «gli stretti obblighi di servizio».
La narratrice, suora del convento, ogni tanto interrompe il racconto e riflette sul compito assegnatole di scrivere. Si accorge che la sua penna ogni tanto prende «a correre sul foglio come da sola» e lei le corre dietro. A questo punto dalla sua bocca escono le più belle parole che possano descrivere il mestiere dello scrittore: «È verso la verità che corriamo, la penna e io, la verità che aspetto sempre che mi venga incontro, dal fondo d’una pagina bianca, e che potrò raggiungere soltanto quando a colpi di penna sarò riuscita a seppellire tutte le accidie, le insoddisfazioni, l’astio che sono qui chiusa a scontare».
Nella poesia Il porto sepolto che conferisce il titolo alla prima raccolta scrive anche Ungaretti: «Vi arriva il poeta/ e poi torna alla luce con i suoi canti/ e li disperde// Di questa poesia/ mi resta/ quel nulla/ d’inesauribile segreto». La sua poesia vuole raccontare la scoperta della realtà e della verità.
«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» leggiamo nel Vangelo di Giovanni (8,32). Nel film Sant’Agostino (miniserie tv, 2010) sant’Ambrogio invita il retore e funzionario pubblico Agostino a cercare la verità: «Tornate in voi stessi e chiedetevi quale sia la verità. Solo la verità potrà rendervi veri uomini, uomini liberi». Poi gli sottolinea come deve avvenire questa ricerca: «Ricordate cosa vi ho detto: non è l’uomo a trovare la verità, deve lasciare che sia la verità a trovare lui. Perché la verità è una persona, è Gesù Cristo, il figlio di Dio».
Anche in Calvino compare la consapevolezza del limite umano e della difficoltà di raggiungere la verità. C’è in lui la coscienza che dovrebbe essere la verità a rivelarsi a noi («la verità che aspetto sempre che mi venga incontro»).