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RIEDUCARSI ALLA BELLEZZA /2

Il Bello non è un rotolo di carta igienica

Eliminato il riferimento al Mistero, anche l'estetica contemporanea ha sposato il relativismo, partorendo opere brutte, figlie del soggettivismo.

Cultura 11_06_2011
carta igienica

In un importante concorso artistico nazionale, qualche anno fa, un bastoncino ingessato e inchiodato in un muro, da cui pendeva un rotolo di carta igienica, vinse il primo premio. Il voto popolare, cioè di chi aveva visitato la mostra, elesse un altro dipinto, di taglio figurativo, come miglior opera. Perché? Come mai si assiste, oggi, ad una sempre più pronunciata discrasia tra giudizio dei critici artistici e buon senso comune? Questa distanza tra buonsenso comune e giudizio degli addetti ai lavori se da un lato dimostra che l’uomo conserva sempre dentro di sé la capacità di un giudizio dall’altro rivela che la cultura e l’estetica contemporanea si sono allontanati dalla bellezza e dalla ricerca della verità. Quali sono le ragioni di questi cambiamenti radicali nel concetto di fatto artistico? Perché l’arte non è più testimone e portatrice del bello?

Per provare a rispondere a queste domande dobbiamo cercare di capire meglio che cosa sia avvenuto nella cultura e nell’arte nel secolo scorso. Joseph Ratzinger, allora decano del collegio cardinalizio, nell’aprile 2005, durante l’omelia della Missa pro eligendo romano pontefice, parla di dittatura di un nuovo paradigma culturale: «Il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie».

Siamo nell’epoca in cui ogni affermazione sull’esistenza della verità viene tacciata di «fondamentalismo religioso» o di «conservatorismo culturale». Chiedendosi che cosa influisca maggiormente nell’affermazione del relativismo gnoseologico, lo storico dell’arte austriaco Hans Sedlmayr (1896-1984) risponde la perdita del centro, ovvero la perdita della centralità dell’io. Solo in un autentico rapporto di riconoscimento della dipendenza dal Mistero, dal significato del Tutto, da Dio possono persistere la consapevolezza di sé dell’uomo, un vero umanesimo e una proficua fecondità.

Così, il grande filosofo russo
contemporaneo N. A. Berdjaev (1874-1948) si è espresso al riguardo: «L’affermazione dell’individualità umana presuppone l’universalismo; lo dimostrano tutti i risultati della cultura e della storia moderna nella scienza, nella filosofia, nell’arte, nella morale, nello stato, nella vita economica, nella tecnica, lo dimostrano e lo provano con l’esperienza. È provato e dimostrato che l’ateismo umanistico porta all’autonegazione dell’umanesimo, alla degenerazione dell’umanesimo in antiumanesimo, al passaggio della libertà in costrizione. […] In essa l’uomo deve di nuovo legarsi per raccogliersi, deve sottomettersi al supremo per non perdersi definitivamente».

Quando l’uomo non ha più la consapevolezza del proprio io, potremmo anche dire della natura del proprio cuore, fatto per l’amore, per il bene, per la bellezza, allora emergono il brutto, la negatività, la perdita di senso delle cose. Morte, oscenità, bruttezza, abnorme uso della sessualità sostituiscono desiderio di vita, sacralità, bellezza e tenerezza amorosa: ecco in parte chiariti alcuni scenari artistici, pseudoartistici e cinematografici della contemporaneità. La contemporaneità ha smarrito anche il senso della tradizione e dell’identità in nome del pluralismo e del multiculturalismo con la conseguenza che si rischia di far crescere le nuove generazioni senza un «padre», senza una «madre».

Pensiamo che cosa significherebbe presentare ad un bimbo tante donne e fosse lui a dover scegliere tra queste la madre: impazzirebbe, probabilmente; certamente, crescerebbe nell’insicurezza e nell’instabilità affettiva. Conseguenza di questo rifiuto del padre, della tradizione, è l’odio per l’Occidente, per la nostra cultura, per il cristianesimo. Messa in discussione l’esistenza della verità (relativismo gnoseologico), consegue, di necessità, anche la perdita delle dialettiche bene/male (relativismo etico) e bellezza/bruttezza (relativismo estetico). L’età contemporanea si caratterizza, così, dal dubbio (esteso ad ogni ambito umano) che la ragione possa davvero incontrare la realtà: è un dubbio metodico e sistematico. L’estetica contemporanea è, in ultima analisi, figlia dell’affrancamento dell’arte dal Mistero, da Dio.

Dal XVII secolo, da quando, cioè, inizia ad affermarsi la modernità dal punto di vista filosofico, l’uomo ha affermato una frammentazione delle differenti discipline, una parcellizzazione del sapere unitario e organico, la nascita dell’autonomia dei campi. Come si è tradotto il relativismo nell’estetica contemporanea?

In primo luogo, ci sembra di poter affermare che il Novecento, secolo delle ideologie imperanti, abbia assistito al prevalere dell’idea anche nell’elaborazione dell’opera d’arte. Chiariamo meglio il concetto. Fino all’Ottocento possiamo constatare che esiste una inscindibilità tra forma e contenuto. Il significato dell’opera d’arte viene certo desunto dal fruitore o dal critico d’arte in maniera ermeneutico - interpretativa, ma a partire da una forma chiaramente distinguibile: per questo l’opera è segno, nel senso più generale di rapporto tra significante (la rappresentazione in sé) e significato (ovvero quanto l’opera d’arte vuole comunicare). Il soggetto, certo, gioca sempre un ruolo decisivo nella comprensione dell’opera, però a partire dall’oggetto.

Di fronte a molta arte del Novecento, invece, lo spettatore comune si deve far da parte – a detta degli esperti e critici d’arte – e far parlare gli interpreti, gli unici depositari della capacità di comprensione di un’arte così distante da quella passata. E che cosa fanno questi critici? Assegnano un significato arbitrario ad un significante che di suo, spesso, non rappresenta alcuna forma o figura. Sovrappongono a significanti grafici un pensiero, un’idea, un concetto portando, quindi, il significato dall’esterno, fatto mai avvenuto in passato quando l’opera d’arte valeva di suo a prescindere dal dono interpretativo del critico o dell’artista. Scrive il filosofo A. Finkielkraut: «Dichiara Malevic: Finora non c’è stato tentativo pittorico in quanto tale esente da ogni tipo di attributi di vita reale».

Oggi, al contrario, l’arte è sempre più lontana dalla realtà, sempre meno imitatrice del reale, si traduce in fatto cerebrale, non colpisce più per la sua unità, non sorprende più, non cattura con il sentimento della contemplazione che si prova di fronte alla bellezza. Solo attraverso un rito di iniziazione il fruitore può arrivare a cogliere qualche chiave ermeneutica dell’opera. Nel panorama contemporaneo, invece, l’attribuzione della patente di opera d’arte diventa, spesso, un’operazione intellettuale o, se preferiamo, ideologica, nel senso che prevale il pensiero sulla realtà rappresentata.

In secondo luogo c’è un fatto del tutto nuovo che riguarda la realizzazione dell’opera d’arte nel Novecento. Anche nel passato, certamente, l’artista lavorava sovente su commissione e veniva retribuito con una ricompensa, magari con il vitto e l’alloggio offerti dal mecenate, o con somme di denaro (talvolta non modeste). É sempre, cioè, esistito un rapporto tra potere e artista, rapporto talvolta contraddittorio e contrastato, che può aver inciso a volte sui messaggi da veicolare, ma non ha mai comportato una mercificazione delle opere come beni di consumo o strumenti di investimento.

Oggi, però, in gran parte le realizzazioni artistiche sono subordinate al guadagno, all’investimento. Spesso, ad esempio, per stimare il valore di un quadro si utilizzano le dimensioni del dipinto e un coefficiente di moltiplicazione che è in relazione al curriculum dell’artista.

In terzo luogo il relativismo applicato all’estetica si traduce nella perdita della dimensione del simbolico, cioè del legame tra il particolare e l’universale, tra l’oggetto artistico e il suo significato, tra l’arte e la forma, tra l’arte e bellezza. «Simbolico» è ciò che unisce, al contrario «diabolico» è ciò che divide. L’arte del Novecento si è affrancata dall’idea di bello, così come, del resto, la cultura ha desistito dal perseguire la strada della ricerca di una risposta alla domanda sul bello.

Nell’epoca in cui proliferano i critici letterari e artistici, il dubbio investe ogni ipotesi di affermazione di una verità anche nel campo dell’arte. É il trionfo del pensiero debole. Più che dire che cosa sia il bello, artisti, critici e movimenti mostrano il multiforme e parcellizzato mondo artistico attraverso una miriade di manifesti. Questo esasperato soggettivismo estetico, commisto alla maniacale tendenza a creare ex nihilo «manufatti d’arte» senza alcun legame con la tradizione passata e con le «tecniche ereditate», ha, spesso, portato gli artisti a realizzare opere «brutte».

Dobbiamo, quindi, cercare di recuperare la dimensione della bellezza e chiederci di nuovo: che cosa è bello? Ma più che voler definire il bello si deve partire dalla riflessione su ciò che desta in noi la bellezza. Di questo parleremo, però, la prossima volta.