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RILEGGIAMO I PROMESSI SPOSI/4

Il 5 maggio Napoleone si convertì

Dopo Adelchi, Ermengarda, il Conte di Carmagnola, ancora una volta Manzoni ci racconta la storia di un personaggio che si converte in punto di morte: Napoleone Bonaparte, l'uomo che segnò un'era, ma che in vita non "fu vera gloria".

Cultura 19_01_2014
Il 5 maggio

Esaltato dagli artisti contemporanei, dal pittore Jacques Louis David, dal musicista Beethoven (che gli dedicò la sinfonia n. 3, la cosiddetta «Eroica»), dal filosofo Hegel, dallo scrittore Foscolo, tra i tanti che potrebbero essere ricordati, l’imperatore Napoleone desta senz’altro l’ammirazione di Alessandro Manzoni, ma non il suo amore. La voce di Manzoni «di mille voci al sònito/ mista la sua non ha:/ vergin di servo encomio/ e di codardo oltraggio». Manzoni, infatti, non ha mai elevato odi al grande comandante quando questi era al colmo della sua gloria né tanto meno lo ha denigrato quando è caduto nella polvere. Solo quando gli giunge nella villa di Brusuglio quaranta giorni più tardi la notizia della morte di Napoleone, in tre giorni lo scrittore lombardo «scioglie all’urna un cantico/ che forse non morrà»: «Il 5 maggio».

Manzoni è colpito dalla scomparsa di un personaggio così grande, che ha posto ordine tra due età, tra Illuminismo e Romanticismo. È bastato che Napoleone pronunciasse il suo nome («Ei si nomò») perché «due secoli,/ l'un contro l'altro armato,/ sommessi a lui si volsero,/ come aspettando il fato;/ ei fè silenzio, ed arbitro/ s'assise in mezzo a lor». Il comandante ha conquistato gran parte dell’Europa, dalle Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno in un movimento direzionale Nord/Sud e poi Ovest/Est che sembra tracciare una croce forse alludendo al fatto che le sue truppe e le sue vittorie fulminee producevano morti sul campo e stermini.

Con Napoleone è scomparso un personaggio che ha dato il nome alla sua epoca, definita per l’appunto napoleonica, un uomo in cui, come direbbe Hegel, si è incarnato lo spirito della storia. Ma ancor più che dalla morte, Manzoni è colpito dalla notizia che Napoleone, che ha sempre assunto un atteggiamento fortemente anticlericale e anticattolico, si sia convertito prima di morire: «Mai più superba altezza si è inchinata al disonore del Golgota».

Certo, Manzoni si basa soltanto sulla notizia della conversione che gli è giunta, non ha evidentemente potuto leggere le trascrizioni (pubblicate più tardi) delle conversazioni tenute da Napoleone con generali e medici, francesi e inglesi, credenti e miscredenti, che lo assistettero durante i sei anni di esilio. Al generale Bertrand Napoleone confida: «Io conosco gli uomini e le dico che Gesù non era un uomo. Gli spiriti superficiali vedono una somiglianza tra il Cristo e i fondatori di imperi, i conquistatori e le divinità delle altre religioni. Questa somiglianza non c’è: tra il cristianesimo e qualsivoglia altra religione c’è la distanza dell’infinito […]. Lei, generale Bertrand, parla di Confucio, Zoroastro, Giove e Maometto. Ebbene, la differenza tra loro e Cristo è che tutto ciò che riguarda Cristo denuncia la natura divina, mentre tutto ciò che riguarda tutti gli altri denuncia la natura terrena […]. Cristo affida tutto il proprio messaggio alla propria morte: come può essere ciò l’invenzione di un uomo? […] Ma l’impero di Cesare quanti anni è durato? Per quanto tempo Alessandro si è sostenuto sull’entusiasmo dei propri soldati? […] I popoli passano, i troni crollano ma la Chiesa resta. Allora, qual è la forza che tiene in piedi questa Chiesa assalita dall’oceano furioso della collera e del disprezzo del mondo? […] Il mio esercito ha già dimenticato me, mentre sono ancora in vita (…). Ecco qual è il potere di noi grandi uomini! Una sola sconfitta ci disintegra e le avversità si portano via tutti i nostri amici».

Napoleone è nella teoria dei grandi della storia, ma la sua fu «vera gloria?». Ne «Il 5 maggio» la prima risposta, in realtà solo parziale, è: «Ai posteri l’ardua sentenza». Sarebbe, quindi, il tempo a rispondere, a sancire la grandezza o meno di un uomo come Napoleone. A noi, quindi, non rimarrebbe che aspettare la risposta del tempo. In realtà, Manzoni inserisce una seconda risposta, alla fine della poesia, quando scrive: «Valida/ venne una man dal cielo,/ e in più spirabil aere/ pietosa il trasportò;/ e l'avviò, pei floridi/ sentier della speranza,/ ai campi eterni, al premio/ che i desideri avanza,/ dov'è silenzio e tenebre/ la gloria che passò». Ovvero sul letto di morte, ormai solo e abbandonato da tutti, Napoleone viene portato in un’aria più respirabile dov’è silenzio e tenebra la gloria che fu, dove può comprendere che quanto rimane nella vita è solo l’eternità, il tempo terreno, invece, fugge lasciando dietro di sé solo la certezza della vanitas vanitatum. Così, nei versi manzoniani, sembrano riecheggiate le parole dantesche: «Non è il mondan romore altro ch’un fiato/ di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi,/ e muta nome perché muta lato./ Che voce avrai tu più, se vecchia scindi/ da te la carne, che se fossi morto/ anzi che tu lasciassi il “pappo” e 'l “dindi”,/ pria che passin mill’anni? ch'è più corto/ spazio a l'etterno, ch’un muover di ciglia/ al cerchio che più tardi in cielo è torto».

Preso dalla nostalgia per il tempo passato e per le glorie, Napoleone tante volte rimase  in piedi a guardare l’orizzonte, «al tacito/morir d'un giorno inerte,/chinati i rai fulminei,/le braccia al sen conserte». Questa è l’iconografia con cui Napoleone è spesso  rappresentato nei dipinti o nei film.

Napoleone più volte ha cercato di raccontare la sua storia, di stendere un diario, ma altrettante volte la sua mano cadde stanca senza portare a termine l’opera. Chissà quante volte Napoleone fu preso dalla nostalgia. Il ricordo è come un’onda che prima solleva il naufrago e gli permette di vedere «prode remote invan» (la terra lontana) e, poi, lo sommerge e lo schiaccia con «il cumulo/ delle memorie». Bellissima è la similitudine di cui si avvale Manzoni. Vale la pena leggerla integralmente: «Come sul capo al naufrago/l’onda s’avvolve e pesa,/ l’onda su cui del misero,/alta pur dianzi e tesa,/scorrea la vista a scernere/prode remote invan;/tal su quell'alma il cumulo/delle memorie scese». Ci sovvengono qui le parole di Dante del canto V dell’Inferno: «Nessun maggior dolore/ che ricordarsi del tempo felice/ ne la miseria». È Francesca in questo caso a parlare per raccontare quale fu il momento in cui lei e Paolo conobbero i loro «dubbiosi disiri» e si amarono. E, a quel punto, accadde la tragedia: «Da quel punto più non vi leggemmo avante». Francesca, perseguendo il suo istinto trova la morte, perde la giovinezza, la bellezza, la famiglia, la vita, e si danna per l’eternità. Lasciandosi abbracciare dalla grazia di Dio, invece, Napoleone trova quella compagnia che non tradisce mai e riconquista se stesso. È Dio a trionfare, solo sua è la vera gloria: «Bella Immortal! Benefica/ Fede ai trionfi avvezza!/ Scrivi ancor questo, allegrati;/ ché più superba altezza/ al disonor del Gòlgota/ giammai non si chinò./ […] il Dio che atterra e suscita,/ che affanna e che consola,/ sulla deserta coltrice/ accanto a lui posò».

Dopo Adelchi, Ermengarda, il Conte di Carmagnola, ancora una volta Manzoni ci racconta la storia di un personaggio che si converte in punto di morte. Siamo nel 1821, alle soglie de I promessi sposi, quando Manzoni ci racconterà le vicende di uomini che diventano protagonisti della propria vita vivendola nella pienezza della fede.