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MESTIERI & LETTERATURA / 4

I pescatori, tra sacrificio e rapporto con l'assoluto

La figura del pescatore ha da sempre affascinato l’universo dei poeti, forse perché l’attività della pesca porta con sé sacrificio, fatica, abnegazione, perfino lotta contro le intemperie e contro i pericoli che possono sorgere dal mare.

Cultura 10_10_2022

La figura del pescatore ha da sempre affascinato l’universo dei poeti, forse perché l’attività della pesca porta con sé sacrificio, fatica, abnegazione, perfino lotta contro le intemperie e contro i pericoli che possono sorgere dal mare. Connaturato alla pesca è il profondo senso della precarietà dell’esistenza in un contesto in cui la natura sovrasta immensamente la caducità della condizione umana.

Il pescatore è così una figura per certi versi religiosa, nel senso etimologico del termine, perché cerca di creare un legame («religare») con il mistero e con la divinità (simbolicamente rappresentata dal mare).

Un racconto di Ovidio nel XIII libro delle Metamorfosi fonde entrambe le dimensioni del pescatore: la fatica e il contatto con il mistero e l’assoluto. Sentitosi molto stanco, visto che molti pesciolini recuperavano le forze una volta che si nutrivano di erbe marine, anche il pescatore Glauco decide di cibarsi di quelle, trasformandosi all’istante in divinità marina.

Se ne ricorda Dante nel I canto del Paradiso, quando racconta che guardando Beatrice divenne dentro di sé simile al pescatore Glauco quando gusta l’erba che lo fa diventare compartecipe in mare della natura divina.

Nel vangelo molti dei discepoli di Cristo sono pescatori e il Signore ribattezza il loro mestiere come quello di «pescatori di uomini». L’esistenza è un mare in cui l’uomo annega se non incontra la salvezza che è Cristo. 

Nel Perceval Chretien de Troyes presenta un giovane educato dal maestro Gornemont de Goorn al codice della cavalleria, che impara a prestare soccorso ai deboli, alle donne e ai bimbi e che si innamora, poi, della bellissima Biancofiore, ma l’abbandona per ritornare dalla madre. Dopo diverse vicissitudini si imbatte nella grande avventura. Un ostacolo, un fiume, posto sul suo cammino è l’occasione di conoscere un pescatore che invita Perceval nella sua abitazione. Lì il pescatore si presenta al cavaliere come un re ammalato. In una reggia immensa Perceval assiste a una scena strana e quasi incomprensibile. Un paggio porta una lancia insanguinata, mentre una dama segue con una larga coppa in mano, un Graal, che emana una luce luminosa. Perceval vorrebbe chiedere e domandare quale sia il significato del gesto. Ma non chiede. Per questo, il giorno seguente, al risveglio Perceval non troverà più nessuno nella reggia. Se il giorno precedente avesse chiesto, il regno sarebbe tornato fecondo e il re sarebbe guarito. Se avesse chiesto, avrebbe scoperto che il calice, il Graal, era portato al padre del re Pescatore, che nessuno può vedere. Invece, la sua vita sarà d’ora innanzi tutta investita dalla ricerca di quel calice. Al lettore medioevale appare chiaro che Cristo è il Re pescatore, mentre il padre del Re pescatore, che non si può vedere, è Dio Padre creatore.

Il mare rappresenta un pericolo. Il pescatore può rimanere a pescare per giorni, incontrando tempeste e mettendo a repentaglio la stessa vita.

Paesino del catanese, Aci Trezza è lo scenario de I Malavoglia, primo romanzo del Ciclo dei vinti in cui la famiglia Toscano, «tutti buona e brava gente di mare», è soprannominata dal popolo col nomignolo di «Malavoglia» per alludere ad una pigrizia che è più presunta che reale. Nulla cambia nella vita di Aci Trezza e della famiglia dei Malavoglia finché non viene realizzata l’unità d’Italia e con essa si introducono delle novità in Sicilia, in primis le tasse e la leva obbligatoria.

Chiamato alle armi nel 1863, il giovane ‘Ntoni rimane lontano da casa per cinque anni e scopre anche la bella vita della città. Ai Malavoglia occorrono maggiori entrate ed è così che Padron ‘Ntoni decide di avviare il traffico dei lupini e si indebita con l’usuraio del paese (lo zio Crocifisso) per comprare un carico che rivenderà più tardi. L’obiettivo è quello di aumentare le entrate dei Malavoglia. La Provvidenza, la barca più vecchia della famiglia, parte un sabato sera con destinazione Riposto, accompagnata dai tristi presagi della Longa e dai buoni auguri del nonno («Scirocco chiaro e tramontana scura, mettiti in mare senza paura»). A bordo vi stanno Bastianazzo, Menico e il carico di lupini avariati che non faranno più ritorno. La domenica una tempesta si ingoia voracemente le persone e il carico, privando i Malavoglia anche del pater familias. Iniziano così le loro sventure: il naufragio della Provvidenza comporta anche l’indebitamento dei Malavoglia che devono ripagare lo zio Crocifisso.

Il mare mostra l’altra faccia della medaglia: fascino e pericolosità sono due aspetti delle attività che vi si svolgono. Il pescatore è cosciente della sorgente di vita che è l’acqua, ma coglie anche l’importanza dell’interpretazione dei segni che si colgono nella realtà per non correre il rischio di imbattersi in pericoli insormontabili; questa capacità di cogliere e di leggere i segni non è sempre sufficiente ad evitare gli imprevisti.

C’è un’eroicità nell’affrontare la forza della natura che poche volte, come nel caso del mare, mostra la sua soverchiante superiorità dinanzi all’impotenza dell’uomo («quando il mare era cattivo, e voleva inghiottirseli in un boccone, loro, la Provvidenza e ogni cosa […]»). Eppure la lotta del pescatore è per la sopravvivenza: «La Provvidenza si avventurava spesso al largo, così vecchia e rattrappita com’era, per amore di quel po’ di pesca». L’uomo vorrebbe dominare e controllare anche il mare, come fosse il cortile o l’aia, ne è chiaro segno la metafora: «C’erano tante barche che spazzavano il mare colla scopa» (che indica anche l’attività dei pescatori che ripuliscono le acque dei pesci). Ma è solo un’illusione: la forza delle acque distrugge la Provvidenza e s’inghiotte il padre di famiglia.

Così, è bene affidarsi alla preghiera, lo ricorda Pascoli, che non dedica solo versi al mondo della campagna, ma ne riserva anche al mare. Ne La famiglia del pescatore è descritta una capanna «meschina», con le lenze dei pescatori «appese/ alle pareti». Cinque bambini «sonnecchiano» sul «pagliericcio». La madre prega, è sola e pensa al mare

[…] Di fuor, bianco
di schiuma, al cielo ai venti ed agli scogli
l’Oceano getta il suo cupo singhiozzo.

Il marito è un pescatore che fin da piccolo «combatte/ con la fortuna», in qualsiasi situazioni meteorologica («piova pur, tuoni pur»), perché i piccoli hanno fame. È un mestiere che lo porta a stare solo, al governo della sua barca, in modo epico: «erra frattanto/ sbalzato e urtato dal continuo fiotto:/ sol, l’abisso e le tenebre viaggia». Nel buio, al freddo, cerca «il posto buono per la pesca, il luogo/ mobile oscuro ove s’accoglie il pesce» in mezzo ai frangenti e alle onde alte che spaventano. Quel posto buono per la pesca che sta cercando in mezzo a quel mare sconfinato «è un punto/ grande due volte quella stanza appena». Con pazienza e con maestria il pescatore sta cercando quel luogo in mezzo a quel deserto.

Egli pensa a Lucia di tra la notte
del freddo mar. Lucia lo chiama e piange.
Ed ecco nella oscurità s’incontrano
i lor pensieri, come uccelli in via.

La sua donna «vecchie tele cuce,/ e rassetta le reti, e appresta gli ami,/ pur sorvegliando al focolar la zuppa/ di pesce». Rimane vicino al marito «pregando Dio».