Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Luigi Maria Grignion di Montfort a cura di Ermes Dovico
TERZOMONDISMO

I paesi poveri sono più accoglienti? Falso

L’86% dei profughi è ospitato in paesi in via di sviluppo. E allora questo vuol dire che i paesi più poveri sono altruisti, mentre quelli ricchi sono egoisti? Editorialisti, politici e religiosi dicono così. Ma non tengono conto che questi profughi provengono da paesi confinanti e sono assistiti da Acnur. Coi soldi dei paesi ricchi.

Esteri 13_08_2015
Campo profughi in Giordania

È un mantra che viene ripetuto ogni volta che si parla di profughi e migranti clandestini: i Paesi poveri sono più generosi nell'accogliere i disperati in fuga. Ultimo in ordine di tempo a ripeterlo è stato il segretario della CEI, mons. Nunzio Galantino, di ritorno dalla Giordania dove - ha detto - vi sono 2 milioni di profughi ospitati con una popolazione locale di 6 milioni. A parte le cifre non proprio precise, tale convinzione è un mito. In questo articolo si spiega il perché.

UNHCR è l’acronimo di United Nations High Commissioner for Refugees, in italiano Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, una traduzione che ingenera spesso degli equivoci per via del significato più ampio della parola inglese “refugees”: non solo rifugiati, cioè i detentori di uno preciso status giuridico definito in base alla Convenzione di Ginevra, ma i profughi in generale, gli espatriati a forza. L’Acnur inoltre si occupa anche degli sfollati o profughi interni. 

Altri equivoci derivano da una lettura spesso affrettata o, peggio ancora, ideologica dei rapporti forniti dall’Acnur: vediamo come mai. 

L’ultimo rapporto contiene i dati aggiornati a fine dicembre 2014. Il totale dei profughi a quella data è di 59,5 milioni, 8,3 milioni in più rispetto a 12 mesi prima. I problemi di lettura incominciano con i dati disaggregati. L’86% dei profughi è ospitato in paesi in via di sviluppo, il 42% in paesi con reddito annuo pro capite inferiore a 5.000 dollari e il 25% in alcuni dei paesi più poveri del mondo. 

Il commento di giornalisti, politici, accademici e religiosi è quasi corale: dunque il ricco Occidente senza cuore chiude gli occhi e lascia ai poveri il compito di prendersi cura dei profughi. Sulla pagina web di La Repubblica, Paolo Brera il 18 giugno scorso commentava, ad esempio: “se l’Europa fatica ad affrontare un problema che ha largamente contribuito a creare, come possono riuscirci i paesi in via di sviluppo?”

I giudizi diventano ancora più aspri quando si passa al rapporto tra profughi e abitanti: 232 su mille in Libano e 87 su mille in Giordania, detentori del “primato della mano tesa”, fino a scendere a 15 su mille in Svezia e a 14 a Malta. 

Ma basta scorrere il capitolo che elenca i paesi di origine dei profughi per capire che non c’entrano mani tese e porte aperte. Il 53% dei profughi provengono dalla Siria, 3,88 milioni, dall’Afghanistan, 2,59 milioni, e dalla Somalia, 1,11 milioni. Seguono Sudan, Sud Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Myanmar, Repubblica Centrafricana, Iraq ed Eritrea. Come è logico, cercano la salvezza nei paesi vicini. Difatti gli stati che ricevono più profughi sono la Turchia, con 1,59 milioni, il Pakistan, con 1,51, il Libano, con 1.15, l’Iran, con 982.000, l’Etiopia, con 659.500 e la Giordania, con 654.100. Seguono Kenya, Ciad, Uganda e Cina. Per fare un esempio, i due paesi verso cui fuggono gran parte dei profughi dalla Somalia, in guerra ormai da un quarto di secolo, sono il Kenya e l’Etiopia, due stati confinanti. 

Molti di coloro che fuggono non hanno i mezzi per andare più lontano. Quasi tutti sperano di poter rientrare in patria prima o poi, non vogliono neanche pensare a un esilio perpetuo. Sono questi i motivi per cui i profughi si allontanano il meno possibile da casa, dal resto della famiglia: appena il necessario per essere al sicuro. Tanto è vero che i profughi sono 14,4 milioni, mentre gli sfollati, che neanche varcano i confini nazionali, sono 38,2 milioni. 

C’è una cosa, poi, che i più sembrano ignorare quando parlano di accoglienza e mettono a confronto l’egoismo dei ricchi con la generosità dei poveri. L’Acnur non si limita a contare i profughi. Il suo compito è assisterli, in collaborazione con altre agenzie delle Nazioni Unite – Fao, Unicef, Oms, Ocha... – e con decine di migliaia di organizzazioni non governative. Per profughi e sfollati, al verificarsi di un’emergenza, l’Acnur allestisce dei campi, attrezzati e recintati, nei quali fa confluire i profughi che da quel momento vengono alloggiati, nutriti, curati. In seguito vengono aperte scuole, laboratori, negozi... con l’obiettivo, non sempre raggiungibile, di ricreare condizioni di vita dignitose oltre che sicure. 

Gran parte dei profughi sono così assistiti dell’Acnur. Nei paesi a basso sviluppo e in quelli poveri, praticamente tutti. In Kenya, ad esempio, nel 2015 si stima che i profughi saranno quasi 643.000, interamente a carico dall’Acnur. Lo stesso dicasi per gli oltre 821.000 profughi ospitati in Etiopia e per l’1,5 milioni di profughi in Pakistan. In Giordania invece l’Acnur assisterà nel 2015 tutti i profughi dalla Siria, che si prevede possano salire a 937.000 a fine anno, e quasi 22.000 profughi dall’Iraq su un totale di 57.000. 

La nota dolente è il difficile controllo sull’uso dei fondi affidati ai governi e alle organizzazioni locali. Dove la corruzione dilaga, politici e funzionari fanno sparire una parte del denaro destinato all’assistenza ai profughi. Non a caso molti governi si dimostrano così disponibili ad accoglierli.  

Dove l’Acnur non arriva o non basta, molta dell’assistenza è assicurata da missioni, parrocchie e diocesi: persino nei paesi islamici. In Camerun, ad esempio, Pime e Caritas si prendono cura dei profughi nigeriani e degli sfollati camerunesi minacciati da Boko Haram: di tutti quelli che non sono in grado o non vogliono raggiungere un campo creato dall’Acnur in una località isolata e lontana. Un flusso incessante di denaro, dall’Italia e dagli altri stati cristiani, sostiene missionari e sacerdoti: a volte restano solo loro, in territori teatro di guerra, dopo che Onu e organizzazioni non governative hanno ritirato i loro operatori.