I Giubilei di Machiavelli
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Nel 1525, anno giubilare, Machiavelli si trovava a Roma. In quel periodo scrisse un’Esortazione alla Penitenza. Di diverso tenore le Storie fiorentine, dove c’è attenzione alla storia della Chiesa, ma manca uno sguardo diverso dalle logiche mondane.
Esautorato di ogni incarico pubblico, torturato e incarcerato nel 1513, una volta liberato, Niccolò Machiavelli (1469-1527) rimase lontano dai luoghi di potere e dalla possibilità di contribuire alla politica attiva con la sua esperienza e con le sue letture degli antichi. Solo sette anni più tardi il cardinale Giulio de’ Medici (il futuro papa Clemente VII) gli assegnò un incarico rilevante: scrivere le Storie fiorentine dall’origine alla contemporaneità. L’attività storiografica lo impegnò fino al 1525, quando presentò la sua fatica al committente, nel frattempo divenuto papa.
Nel 1525, anno giubilare, Machiavelli si trovava quindi a Roma. Quello stesso anno, o al più tardi quello seguente, redasse un’Esortazione alla Penitenza, opera poco conosciuta, che difendeva la teologia della misericordia. Pur essendo un ferreo oppositore della corruzione della curia romana, Machiavelli si schierava però in difesa della Chiesa cattolica contrapponendosi a Lutero.
Ben differenti erano, invece, le Storie fiorentine che riassumevano le vicende della sua città, inserita nel contesto più ampio italiano ed europeo, dalla fondazione fino alla morte di Lorenzo il Magnifico nel 1492, con un approfondimento sugli anni contemporanei. Con quest’opera scritta su commissione, Machiavelli si riavvicinava così ai Medici pur non rinunciando alla sua autonomia di pensiero. Lo scrittore sceglieva di non toccare gli anni che seguivano la morte del grande signore mediceo, perché avrebbe dovuto soffermarsi sulla cacciata dei Medici nel 1494 e sulle vicende successive.
Il compito dello storico è quello di ricostruire la verità con un’attenta ricerca storica. Senz’altro in Machiavelli, anche in un’opera di carattere storiografico, non viene meno la passione politica, con un’attenzione particolare alle cause che hanno portato alla decadenza degli Stati italiani nella contemporaneità: gli oziosi principi italiani, le milizie mercenarie, le discordie civili. La storia di tutti i tempi e i luoghi, per Machiavelli, appare governata dalla legge del più forte. Machiavelli dedica una particolare attenzione alla storia della Chiesa e al papato. Si sofferma sulle vicende drammatiche che vive la Chiesa nel XIV e XV secolo tra la Cattività avignonese e lo Scisma d’Occidente. Non può non ricordarsi dei Giubilei. Riguardo al secondo giubileo della storia, così ne racconta la genesi: «Era venuto l’anno 1350, sì che al Papa [Clemente VI, ndr] parve che il giubileo, ordinato da papa Bonifazio VIII per ogni cento anni, si potesse a cinquanta anni ridurre, e fattolo per decreto, i Romani, per questo benifizio, furono contenti che mandassi a Roma quattro cardinali a riformare lo stato della città, e fare secondo la sua volontà i senatori».
La fine della Cattività avignonese è riassunta in poche righe: «Dopo la morte di Urbano, fu creato Gregorio XI; e perché gli era ancora morto il cardinale Egidio, la Italia era tornata nelle sue antiche discordie, causate dai popoli collegati contro ai Visconti, tanto che il Papa mandò prima uno legato in Italia con seimilia Brettoni, di poi venne egli in persona, e ridusse la corte a Roma nel 1376, dopo settantuno anno che la era stata in Francia». Senz’altro, già nei decenni precedenti, non erano mancate le iniziative per riportare la sede della curia papale a Roma. I papi, con l’eccezione di Clemente VI, si erano interessati alla situazione di Roma, ai contrasti tra le famiglie e alcuni avevano anche ascoltato le voci pressanti di chi chiedeva il ritorno a Roma. Papa Urbano V aveva risieduto nella Città Eterna dal 1367 al 1370, quando per le rivolte era stato costretto a rientrare ad Avignone. Fu papa Gregorio XI a porre fine alla Cattività avignonese dando così ascolto a santa Caterina da Siena.
In Machiavelli manca uno sguardo che sappia guardare la Chiesa in una logica diversa da quella che la considera semplice instrumentum regni. Le dinamiche della storia sono per lui caratterizzate unicamente da poteri che si scontrano per accrescere o conservare il proprio dominio; le leggi che governano la politica sono differenti da quelle morali; i principi possono agire in qualsiasi modo pur di conservare o accrescere la grandezza dello Stato. I capi seguono il principio della ragione di Stato. Anche nella Chiesa, secondo Machiavelli, funziona così. Gli eventuali errori delle figure ecclesiastiche sono per lui una conferma delle leggi che governano la storia. Lo scrittore non vede l’operato di quanti in seno alla Chiesa operano secondo criteri che non sono di questo mondo. Machiavelli attua per questo una semplificazione dell’agire umano accettando o raccontando solo quelli che rientrano nella sua prospettiva di spiegazione della realtà. Se Petrarca racconta il suo Giubileo e gli effetti che ha prodotto su di lui, Machiavelli non documenta mai il suo rapporto personale con la Chiesa, con il Giubileo, con la fede, con la domanda religiosa.
Raccontata la fine della Cattività avignonese, Machiavelli passa poi all’inizio dello Scisma d’Occidente, durato quarant’anni (dal 1378 al 1418): «Ma seguendo la morte di quello [papa Gregorio XI], fu rifatto Urbano VI, e poco di poi, a Fondi, da dieci cardinali che dicevano Urbano non essere bene eletto, fu creato Clemente VII». Lo scrittore prosegue: «La reina Giovanna favoriva il papa scismatico; per la qual cosa Urbano fece fare contro a di lei la impresa del Regno a Carlo di Durazzo, disceso de’ reali di Napoli; il quale, venuto, le tolse lo stato e si insignorì del Regno; ed ella se ne fuggì in Francia. Il re di Francia, per questo sdegnato, mandò Lodovico d’Angiò in Italia per recuperare il Regno alla Reina, e cacciare Urbano di Roma e insignorirne l’Antipapa».
Papa Urbano VI cercò senz’altro di porre fine ai gravi mali che affliggevano la Chiesa. Non vi riuscì. Nel 1389 emanò la bolla Salvator noster Unigenitus in cui stabiliva che l’intervallo tra un giubileo e l’altro doveva essere di trentatré anni come gli anni di Cristo e che si iniziasse dal 1390. Fu così indetto il terzo Giubileo per il 1390, ma il papa morì il 15 ottobre del 1389. Il successore Bonifacio IX, uomo bello e forte ma al contempo ignorante, proseguì l’iniziativa.
L’antipapa Clemente VII (1342-1394) emanò una bolla in cui impediva ai fedeli di recarsi a Roma per il Giubileo. Così molti francesi e spagnoli non scesero in Italia, mentre da altre contrade d’Europa giunsero pellegrini. Papa Bonifacio IX introdusse la possibilità di avere l’indulgenza anche se non presenti a Roma. Arrivarono nella casse di San Pietro centomila fiorini d’oro. Il terzo Giubileo, quello del 1390, passò alla storia come il Giubileo dei due papi.
Petrarca al Giubileo senza Papa
Fu un singolare Anno Santo quello del 1350, indetto da Clemente VI che però rimase ad Avignone. E fu singolare anche per il poeta che, diviso interiormente, vi sperimentò un profondo cambiamento interiore.