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l'analisi

I dazi costringono l'Europa a sganciarsi dalla globalizzazione "cinese"

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Con l'introduzione dei dazi di Trump tramonta la globalizzazione "a trazione cinese", che ha dominato l'economia e la politica mondiale nell'ultimo trentennio. Ora l'Europa ha due strade: o negoziare a tutto campo con gli Stati Uniti per inserirsi in un'area di rinnovata interdipendenza transatlantica o cadere inevitabilmente preda dell'area di egemonia della Cina. 

Economia 07_04_2025

I dazi "reciproci" varati dall'amministrazione di Donald Trump il 2 aprile nei confronti di gran parte dei paesi del mondo non rappresentano una catastrofe, come vengono dipinti dal mainstream mediatico e politico europeo. Essi sono piuttosto il punto di arrivo di un processo iniziato già da tempo, la presa d'atto del fatto che un'epoca storica è giunta alla conclusione e ne sta iniziando un'altra dalle caratteristiche diverse. 

L'epoca al tramonto è evidentemente quella della globalizzazione "a trazione cinese", o più in generale asiatica, che ha dominato l'economia e la politica mondiale nell'ultimo trentennio. È stato il periodo in cui si è verificato un gigantesco riequilibrio del potere economico e politico mondiale. Una parte consistente dell'umanità (quasi l'intera Asia, parte dell'Africa e dell'America latina) ha conosciuto una spettacolare crescita economica, riducendo enormemente le sue sacche di povertà e - nel caso di Cina e India – configurandosi come potenza planetaria con peso ormai comparabile a quello degli Stati Uniti e dell'Occidente.

Dall'altra parte l'Occidente, pur mantenendo complessivamente un margine di leadership nelle punte più tecnologicamente avanzate dell'economia, ha subìto invece un significativo ridimensionamento, e soprattutto ha dovuto affrontare una drammatica lacerazione sociale al proprio interno, e un rilevante abbassamento del livello di vita e di aspettative di larga parte delle proprie popolazioni. Questo perché la globalizzazione di fine XX e inizio XXI secolo si è fondata su un clamoroso dumping (concorrenza al ribasso) prodotto dalla versione asiatica, e in particolare cinese, dell'economia di mercato: un'organizzazione della produzione orientata essenzialmente sull'esportazione, e fondata su un costo molto basso della mano d'opera e della produzione. 

Questa concorrenza ha mandato all'aria l'industria manifatturiera occidentale, e con essa gli equilibri delle società industrializzate "affluenti", caratterizzati fino ad allora da un certo grado di stabilità occupazionale, dall'aspirazione generalizzata alla crescita di retribuzioni e consumi, e da quella alla upward mobility (l'"ascensore sociale", cioè le aspettative di tenore di vita e di status più alti). La delocalizzazione della produzione in paesi più convenienti per le imprese, la desertificazione delle classi operaie e dei ceti medi, una tendenza strutturale alla deindustrializzazione e alla stagnazione hanno diviso drasticamente le società occidentali in super-élites competitive (sostanzialmente i vertici delle imprese hi tech e della grande finanza) e "plebi" impoverite, precarizzate ed avvilite. Per cercare di fronteggiare in qualche modo la deriva "asia-centrica" una parte dell'Occidente – l'Europa raggruppata nell'Unione europea intorno all'asse franco-germanico – ha ristrutturato le proprie economie in qualche modo imitandone quel modello: bassi salari, bassi consumi, una moneta comune artificialmente svalutata per favorire al massimo le esportazioni, regolamentazioni e sussidi per favorire le proprie maggiori imprese. Facendo, a sua volta, dumping nei confronti degli Stati Uniti. 

Ora, la politica daziaria di Trump – proseguimento ampiamente annunciato di un processo iniziato già con il primo conflitto doganale del 2018 con Cina ed Europa – rappresenta il tentativo di invertire decisamente la rotta rispetto a quella deriva, riequilibrando l'enorme deficit della bilancia commerciale accumulato dagli Stati Uniti. I suoi obiettivi dichiarati sono: riattrarre capitali e investimenti dall'estero; rinegoziare l'altrettanto enorme debito pubblico del paese con i suoi creditori; ricondurre per quanto possibile l'ecomonia americana verso la prevalenza della produzione industriale sulla finanza; incrementare occupazione, salari, domanda interna. 

Non è un caso che i bersagli principali dell'offensiva statunitense siano la Cina, i paesi indocinesi e dell'Estremo oriente strettamente legati a Pechino e la Germania: i principali agenti del dumping globale.

Si tratta, certo, di un tentativo che può riuscire ma anche fallire. E non c'è dubbio che i dazi siano un'arma a doppio taglio dai possibili effetti collaterali molto pericolosi: in primo luogo turbolenze finanziarie (che già si stanno producendo), fiammate inflattive, recessione provocata dall'innesco di guerre doganali vere e proprie. Ciò nonostante, indubbiamente quello sforzo di riequilibrio risponde oggi ad un'esigenza reale, e non ha senso additarlo caricaturalmente come un atto arbitrario, arrogante, aggressivo, egoistico. Se gli Stati Uniti, e l'Occidente in generale, non correggono la deriva economica export-oriented asia-centrica cercando di ricostruire società produttive e in crescita, rischiano seriamente di collassare. 

La rappresentazione dell'economia mondiale attuale come una sorta di ordine liberale ideale è ridicola. Essa è invece già un campo irto di barriere e ostacoli, rispondenti a criteri di ragion di Stato e a tentativi delle classi politiche egemoni di consolidare il proprio potere. Le distorsioni provocate dai dazi trumpiani sono molto minori di quelle oggi derivanti da dazi palesi o occulti oggi operanti, dalla manipolazione al ribasso delle monete come euro e reminbi, dalle costrizioni ideologiche del Green Deal che hanno ucciso l'industria dell'automotive europea e fatto schizzare in alto artificialmente i costi dell'energia, da una iper-regolamentazione soffocante. Quindi la cosa peggiore per l'Europa sarebbe reagire ideologicamente e istericamente alle barriere americane di oggi con ritorsioni ulteriori, come purtroppo l'Unione europea di Ursula von der Leyen mostra di voler fare, per assecondare la frustrazione tedesca e francese. È necessario invece, in particolare per l'Italia, innanzitutto comprendere il processo di evoluzione dalla globalizzazione asia-centrica a un possibile assetto di globalizzazione ridimensionata e ristrutturata, e trovare la propria collocazione al suo interno. 

In particolare, solo due possono essere le prospettive per l'Europa in questo nuovo scenario. O negoziare a tutto campo con gli Stati Uniti per inserirsi in un'area di rinnovata, alta interdipendenza transatlantica, liberata il più possibile da barriere e vincoli dirigistici, e ispirata dalla medesima aspirazione alla prevalenza di produzione manufatturiera e domanda interna, così come del mantenimento di società pluralistiche. O, viceversa, cadere prima o poi inevitabilmente preda dell'area di egemonia della Cina, con tutte le conseguenze immaginabili non solo sul tenore di vita delle popolazioni, ma sullo stesso modello di società fondato sulla libertà e la dignità umana di cui l'Europa è stata l'origine. E purtroppo tra le classi dirigenti del vecchio continente tornano a emergere voci inquietanti che, in maniera più o meno esplicita, sembrano spingere in tale direzione.