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BALTICO

I cento anni di Lituania, terra di resistenza cattolica

In attesa del prossimo viaggio apostolico di Papa Francesco, Lituania, Lettonia ed Estonia celebrano il loro centenario dell’indipendenza. La prima è la Lituania, che compie i suoi 100 anni il 16 febbraio 2018. La sua è una storia esemplare di resistenza all'ateismo di Stato, ora raccontata in un libro dello storico Rokas Tracevskis.

Libertà religiosa 16_02_2018
Lituania

In vista del prossimo viaggio apostolico di Papa Francesco nei Paesi Baltici, previsto per metà settembre, Lituania, Lettonia ed Estonia stanno festeggiando in questi mesi e giorni il loro centenario dell’indipendenza. La prima a celebrare è la Lituania, che compie il suo centesimo anno oggi, 16 febbraio 2018, seguita a ruota dall’Estonia (24 febbraio) e più tardi dalla Lettonia (18 novembre).

Ci si chiederà: ma non hanno dichiarato l’indipendenza dall’Unione Sovietica solo fra il 1990 e il 1991? Per chi ha vissuto quegli anni, sono ancora vivide nella memoria le scene dei carri armati mandati dal “riformatore” Gorbachev a Vilnius, capitale della Lituania, per tentare di sopprimere con la forza l’indipendenza, nel gennaio del 1991, mentre gli occhi di tutto il mondo erano puntati sulla Guerra del Golfo. In realtà, le piccole repubbliche baltiche, anche in questo caso dietro l’esempio lituano, hanno rialzato la testa dopo mezzo secolo di occupazione sovietica. Ma avevano già un passato. Erano già nazioni parte della famiglia europea. La loro cancellazione dalla carta geografica, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, non è mai stata riconosciuta dalle potenze occidentali: gli Stati Uniti hanno sempre tenuto aperte le loro ambasciate. La Lituania, in particolar modo, è un esempio di resistenza cattolica al comunismo.

La Lituania, la nazione che compie i suoi 100 anni oggi, ha subito una delle storie di spartizione e repressione più drammatiche d’Europa, vittima di entrambi i totalitarismi, quello nazista e quello comunista. A raccontare la storia di questo secolo, senza censure e senza peli sulla lingua, è lo storico lituano Rokas Tracevskis, con il suo La Vera Storia della Lituania nel XX Secolo (in italiano edito da Il Cerchio). Tracevskis spiega chiaramente come il totalitarismo sia ancora vissuto come un trauma psicologico, una vera e propria sindrome. "Nel 2004 il canadese Antoon Leenaars, professore al Karolinska Institute svedese ed esperto di fama mondiale del fenomeno del suicidio, in una conferenza a Vilnius disse che vi era una correlazione numerica empiricamente riscontrabile fra il tasso di suicidi nei paesi baltici e l’esperienza sovietica. “Quanto al tasso di suicidio, non c’era alcuna differenza fra la Lituania e il resto dell’Europa prima dell’occupazione sovietica”, disse. L’era staliniana può anche essere finita più di cinquant’anni fa, ma come Leenaars – che definisce la repressione sovietica un genocidio che ha colpito, in qualche modo, ogni famiglia in Lituania – Gražina Gudaitė, professoressa di psicologia all’Università di Vilnius, è convinta che l’era sovietica continui ad avere effetti negativi sulla popolazione”. Ad esempio: “Una delle miei clienti soffriva di un incubo ricorrente in cui dei militari facevano irruzione nel suo appartamento scatenando un massacro”, disse la Gudaitė. “Il massacro finiva con l’esecuzione della mia cliente. Conversando con lei, ho inaspettatamente scoperto che, da bambina, aveva assistito all’ispezione di ufficiale del Kgb nella casa di sua madre, durante la quale aveva minacciato di deportarla (sua madre) in Siberia”.

La storia lituana è però anche degna di nota per la sua resistenza. Non solo vittime, insomma, ma combattenti. Sotto l’occupazione nazista (1941-1944) i cattolici lituani (ricordati da una persistente propaganda ostile come “collaborazionisti”) furono “… secondi al mondo, dopo gli olandesi, per numero di Giusti fra le Nazioni commemorati nel centro mondiale di documentazione, ricerca, istruzione e memoria dell’Olocausto dello Yad Vashem a Gerusalemme, e questo non è cosa da poco se si tiene conto delle dimensioni della nazione lituana e nonostante la Cortina di Ferro abbia scoraggiato gli ebrei a riferire dei loro salvatori”. Dopo la seconda e definitiva occupazione sovietica (1944-1991) sul suo territorio si combatté la più lunga guerra di resistenza d’Europa. Durò nove anni, dal 1944 al 1953, le ultime sacche di partigiani vennero debellate dai sovietici solo negli anni ’60 e l’ultimo resistente morì nel suo rifugio, in mezzo alla foresta lituana, solo nel 1986.

Ma è una resistenza spirituale, soprattutto cattolica, quella che ha tenuto in vita la nazione, nonostante la lunghissima occupazione. L’ateismo di Stato non riuscì mai a sradicare la fede. Anche “… ai piani alti della nomenclatura comunista, si celebrava il Natale e la Pasqua in famiglia, così come si faceva nel resto del paese: uova dipinte e tavole imbandite. I loro genitori andavano a Messa nella domenica di Pasqua. I leader comunisti non lo potevano fare, a quei tempi”. Ufficialmente, Natale e Pasqua, semplicemente, non esistevano nell’era sovietica. Le chiese subirono uno scempio sistematico, ma restarono in piedi.

Tracevskis ricorda in particolare l’epopea di San Casimiro, a Vilnius. “La chiesa di San Casimiro (il santo patrono della Lituania) è una delle più belle chiese barocche di Vilnius e la sua storia rappresenta, in qualche modo, l’intera storia della Lituania. Di volta in volta, questa chiesa cattolica romana divenne una chiesa ortodossa russa, luterana, un granaio (nel 1812 l’esercito francese di Napoleone fu il primo a trasformarla in un granaio) e in una casa dell’ateismo, a seconda di quale potenza occupante straniera ne fosse in possesso. Nel 1949 la chiesa fu ancora una volta chiusa per ordine dei sovietici e trasformata in granaio. In quella occasione, tutto ciò che era nella chiesa venne distrutto, compreso l’organo e le campane. Nel 1963 la chiesa venne adibita dai sovietici a Museo dell’Ateismo”. Secondo una ex impiegata del museo, “Anche quando questa chiesa divenne il Museo dell’Ateismo, la gente, soprattutto i turisti polacchi, entrava per inginocchiarsi e pregare (…)La maggior parte degli impiegati del museo erano cattolici romani, come il resto della popolazione. E’ una fortuna che questa chiesa sia stata trasformata in un museo, perché ai tempi del comunismo altre chiese divennero magazzini. Almeno, diventando un museo, l’edificio venne preservato”.

La resistenza cattolica si espresse soprattutto nella stampa clandestina. “Nel marzo del 1972 si assistette alla comparsa delle Cronache della Chiesa Cattolica in Lituania, la più longeva pubblicazione clandestina dell’intero impero sovietico. Il Kgb in 17 anni non fu capace di sopprimere questa pubblicazione. Le Cronache riportavano e diffondevano in Occidente le notizie sulla discriminazione religiosa. Questa pubblicazione clandestina scriveva della persecuzione di religiosi, delle violazioni dei diritti umani e sosteneva il sogno lituano di restaurazione dell’indipendenza. Il Kgb arrestò molti cattolici che vi lavoravano, ma il giornale continuò ad uscire”.

Simbolo più duraturo della resistenza è però la Collina delle Croci, una piccola e doppia altura nei pressi di Šiauliai, coperta da decine di migliaia (l’ultima stima parla di 55mila ed è già ampiamente superata) crocefissi di tutte le dimensioni, piantate come voto, come ringraziamento, come preghiera. “I locali riferiscono che la collina venne razziata nel 1961, 1973, 1974 e 1975. Le croci di legno venivano tirate giù, spezzate e bruciate, quelle di ferro venivano portate via per essere fuse e riciclate. Ma ricomparivano sempre. Ed è qui il mistero. I locali sanno cosa capitò a coloro che lottarono contro la sacra collina. I locali dicono che nessuno di coloro che aveva preso parte alle distruzioni è sopravvissuto a lungo”. Fu uno dei luoghi principali della visita di San Giovanni Paolo II, nel 1993, che vi lasciò la sua croce. “Grazie lituani per la Collina delle Croci, testimonianza di fronte alle nazioni d’Europa e al mondo intero della fede del popolo che abita questa terra”, disse papa Wojtyla visitando la collina. In seguito, a Roma, durante una delle sue omelie, la descrisse come un “Colosseo dei giorni nostri”. Ora gli stessi luoghi di sofferenza, fede e resistenza, attendono Papa Francesco, 25 anni dopo.