Hong Kong, processo alla democrazia. Pechino condanna gli oppositori del Partito
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Processati e condannati a pesanti pene detentive, 45 attivisti democratici di Hong Kong, fra cui il professor Benny Tai e il giovane leader Joshua Wong. Sono stati condannati per attività sovversive, quando, in realtà, hanno compiuto azioni che, allora, erano perfettamente legali. Se non si era già capito: è la fine del modello "un paese due sistemi" che aveva regolato i rapporti fra la ex colonia britannica e Pechino: il regime comunista non conosce limiti.
Hong Kong: Benny Tai, Joshua Wong, Claudia Mo, Gwyneth Ho, Owen Chow, Leung Kwok-hung, sono ormai volti e nomi noti dell’opposizione al regime cinese. Ora fanno parte del gruppo di 47 attivisti, sotto processo dal 2021, che ieri (19 novembre) sono stati quasi tutti condannati (due soli gli assolti) a pene detentive che vanno dai quattro ai dieci anni. Il motivo della condanna è quello di aver protestato pacificamente e aver tentato di farsi eleggere nelle file dell’opposizione. Attività che, allora, ai tempi dei fatti contestati, erano perfettamente legali secondo la “mini-costituzione” di Hong Kong, ma che oggi, e da quando Pechino ha assunto il controllo praticamente diretto della città, sono condannate come sovversione.
La protesta del gruppo dei 47 nasce nel 2013 a seguito di Occupy Central. Nel 2011 il movimento Occupy, nato negli Usa, era internazionale e si rivolgeva soprattutto contro il capitalismo. A Hong Kong, dove iniziò il 15 ottobre 2011, con un grande accampamento di manifestanti sotto la sede della banca Hsbc, era un movimento rivolto soprattutto contro il Partito Comunista Cinese e il suo sistema corporativo. Il movimento durò quasi un anno e l’accampamento venne sgomberato d’autorità solo l’11 settembre 2012, dietro denuncia della banca. Il movimento era finito, ma aveva dato l’esempio.
Il professore associato di diritto dell’Università di Hong Kong, Benny Tai, nel 2013 scrisse un editoriale, su un settimanale locale, in cui suggeriva gli stessi metodi di disobbedienza civile per avere più democrazia, come d’altronde era stato promesso al momento della restituzione di Hong Kong dal Regno Unito alla Cina nel 1997. Benny Tai contestava il metodo di elezione delle istituzioni locali, votate solo per metà a suffragio universale e per l’altra metà per cooptazione, indirettamente, da Pechino.
Quando, nel settembre 2014, la Cina rifiutò ancora una volta di concedere libere elezioni per il rinnovo del parlamento locale, nell’ottobre successivo scoppiò la protesta civile immaginata da Benny Tai. Le strade del centro cittadino vennero occupate in modo molto più esteso rispetto alla protesta del movimento Occupy. La manifestazione durò 79 giorni, prima di essere dispersa dalle autorità. Prese il nome di “Rivoluzione degli ombrelli”, per l’uso degli ombrelli contro i lacrimogeni della polizia. Fu in quelle proteste di dieci anni fa che si fecero le ossa i maggiori attivisti democratici che ora sono finiti alla sbarra, fra cui anche l’adolescente Joshua Wong, destinato a diventare un portavoce internazionale per la democrazia di Hong Kong. Nel 2019 Benny Tai incassò la prima condanna a 16 mesi di carcere.
L’estate del 2019 fu il periodo della terza ondata di manifestazioni, molto più massicce delle precedenti, con gran parte della cittadinanza coinvolta. L’innesco fu la proposta di introdurre una legge sull’estradizione che avrebbe permesso di processare nella Cina continentale anche cittadini di Hong Kong. Ma già dopo le prime settimane, i manifestanti incominciarono ad alzare il tiro, chiedendo anche la liberazione dei primi prigionieri politici e una riforma democratica delle istituzioni, oltre a una maggiore autonomia da Pechino. Le manifestazioni oceaniche durarono finché la pandemia di Covid-19, dall’inizio del 2020, diede alle autorità il pretesto di chiudere tutti in casa.
Benny Tai si convinse, allora, che la protesta di piazza fosse troppo debole. Si doveva cambiare le istituzioni dall’interno, conquistando la maggioranza. I numeri erano dalla sua parte: nel settembre del 2019, quando la protesta dilagava, la maggioranza dei consigli locali era stata conquistata da esponenti dell’opposizione democratica. Era il momento di passare alla conquista del parlamento cittadino. Si trattava di una prospettiva difficile, con poco più della metà dei seggi eletti direttamente e il resto assegnato alle industrie e ad altri gruppi di interesse che tendevano ad allinearsi con Pechino. Gli oppositori non si scoraggiarono e nel luglio 2020 organizzarono le primarie per selezionare i candidati: ben 600mila cittadini di Hong Kong vi parteciparono, nonostante il Covid e le minacce di Pechino. A questo punto le autorità intervennero in modo più drastico: sempre con il pretesto della pandemia, le elezioni vennero rimandate di un anno e nel gennaio del 2021 le regole vennero cambiate, trasformando, di fatto, il parlamento in un organo del Partito Comunista Cinese. Al tempo stesso, tutti i protagonisti delle proteste del 2019 erano stati arrestati, fra cui anche lo stesso Benny Tai.
Ieri il professore di diritto, ideatore della protesta civile, è stato condannato a 10 anni di carcere, la pena più pesante. «L’unica attenuante nel caso di Tai è stata la sua dichiarazione di colpevolezza anticipata», si legge nella sentenza. L’accusa aveva infatti chiesto 15 anni, con l’ammissione di colpevolezza la pena è stata ridotta di un terzo. Tutti gli altri attivisti, fra cui Joshua Wong (che ha abbandonato l’aula di tribunale gridando “Hong Kong, ti amo”) hanno preso da quattro a sette anni di carcere.
Eloquente il commento del Ministero degli Esteri cinese: «Nessuno può impegnarsi in attività illegali in nome della democrazia e tentare di sfuggire alla giustizia».
Oltre ai 45 condannati ieri, l’Hong Kong Democracy Council, un’organizzazione con sede a Washington, con direttrice Anna Kwok, conta altri 1.900 prigionieri politici che restano in carcere. Oggi (20 novembre), salvo imprevisti, riprende il processo a Jimmy Lai, imprenditore cattolico, fondatore del quotidiano anticomunista Apple Daily. Il suo processo è iniziato a dicembre 2023, quando aveva già trascorso più di mille giorni in carcere. Gli attivisti Lee Cheuk-yan, Albert Ho e Chow Hang-tung - accusati più di tre anni fa in quanto organizzatori delle veglie in ricordo del massacro di piazza Tiananmen - sono ancora trattenuti in custodia cautelare in attesa del processo. Tutte attività legali, appunto, che oggi, retroattivamente, per il regime di Pechino, non lo sono più.
Come se non fosse già abbastanza chiaro, è definitivamente finito il modello "un paese, due sistemi" che doveva garantire la massima autonomia a Hong Kong fino al 2047 (50 anni dopo la restituzione dal Regno Unito alla Cina). Il Partito Comunista Cinese ha la forza dalla sua ed ha la possibilità di appellarsi alla costituzione emessa all'atto della restituzione, per far valere il principio secondo cui la legge cinese prevale su quella locale. Non ha pagato l'ingenuità occidentale, della Thatcher che nel 1984 concordò con Deng la restituzione (sperando invano in un futuro democratico della Cina), poi di Blair che la mise in atto nel 1997. Si fidarono entrambi delle promesse di Pechino sull'autonomia di Hong Kong. Oggi Taiwan prende nota, perché potrebbe essere la prossima in lista.