Hong Kong, la protesta guidata dai cattolici che resistono a Pechino
Le proteste di Hong Kong sono scoppiate con l’emanazione della nuova legge sull’estradizione, che avrebbe permesso alla magistratura della Cina comunista di processare cittadini di Hong Kong. Anche dopo che la legge è stata revocata la protesta continua. E' un popolo spaventato da un regime comunista in piena espansione, che non conosce più i limiti fissati dai trattati e che rischia di fagocitare le loro vite. Le dimostrazioni sono state avviate e guidate dai cattolici di Hong Kong, molto attivi anche se sono meno di un decimo della popolazione. Nonostante il pericolo della repressione violenta sia concreto, la gente sfida il gigante e continua a manifestare. Intervista a Steven Mosher, presidente del Population Research Institute e autore di The Bully of Asia.
Le proteste di Hong Kong sono scoppiate con l’emanazione della nuova legge sull’estradizione, che avrebbe permesso alla magistratura della Repubblica Popolare Cinese (e anche di Taiwan e Macao) di processare cittadini di Hong Kong ricercati per crimini commessi sul suo territorio di competenza. La legge è stata vista come un’indebita ingerenza cinese nell’autonomia di Hong Kong, ex colonia britannica formalmente riunita alla Cina dal 1997, ma semi-indipendente fino al 2047. Dopo 13 settimane di manifestazioni di massa, con momenti di tensione, scontri con la polizia e l’arresto di quasi mille persone, la legge sull’estradizione è stata ufficialmente ritirata dal capo dell’esecutivo, la signora Carrie Lam. Venendo incontro alle richieste dei manifestanti, cosa dovremmo attenderci per il futuro? La Nuova Bussola Quotidiana ne ha parlato con Steven Mosher, antropologo statunitense, presidente del Population Research Institute, il primo che poté condurre ricerche sul campo in Cina dal 1979. È autore di numerosi studi sulla Cina comunista, l’ultimo dei quali è The Bully of Asia, sulla politica espansionista cinese, che individua come la più grave minaccia alla stabilità mondiale.
Professor Mosher, ora che la legge sull’estradizione è stata ritirata, tornerà la quiete in Hong Kong?
Il malcontento causato dalle numerose violazioni dell’accordo sino-britannico da parte di Pechino sta crescendo da molti anni. L’esplosione di rabbia nelle piazze è avvenuta con l’introduzione della legge sull’estradizione che mette ogni cittadino di Hong Kong a rischio di essere sequestrato e spedito nella Cina continentale. Ma anche il ritiro della legge non risanerebbe il profondo rancore della popolazione di Hong Kong. E non fugherebbe la loro paura e la loro collera nei confronti di una dittatura del partito unico che minaccia di sopprimere la loro libertà.
Diverse conversazioni registrate che sono trapelate fra Carrie Lam, funzionari cinesi e di Hong Kong, rivelano una relazione difficile fra Pechino e Hong Kong. Pechino ha di fatto il controllo diretto del governo locale?
Sì e no. Carrie Lam è stata scelta da Pechino per diventare capo dell’esecutivo di Hong Kong, così risponde più a Pechino che al suo stesso popolo. Sia lei che i funzionari di Pechino condividono lo stesso fine: fermare le dimostrazioni e le proteste il prima possibile. Carrie Lam vuol farlo senza spargimento di sangue, su questo ne sono certo, ma chi la controlla a Pechino non ha tutti questi scrupoli. Dunque, mentre non differiscono sul fine, pare abbiano idee diverse sui mezzi. Credo che, qualsiasi cosa succeda, Pechino rimuoverà Carrie Lam non appena le manifestazioni finiranno e poi le darà la colpa per come ha gestito la crisi.
La Chiesa di Hong Kong è stata molto attiva nella protesta e ha sempre sostenuto le richieste dei manifestanti, pur condannando le derive violente. Quanto è presente il cattolicesimo in questi eventi?
Le dimostrazioni sono state avviate e guidate dai cattolici di Hong Kong, che sono appena l’8% della popolazione. Ma a questo numero esiguo vanno aggiunti i molti studenti non cattolici che hanno frequentato le scuole e le università cattoliche. Erano in piazza anche loro, cantando l’Alleluia e “Lo senti il popolo che canta”.
Quanto è concreto il rischio di una repressione militare cinese, in stile Tienanmen?
La popolazione di Hong Kong ricorda e commemora il massacro di Tienanmen ogni anno: decine o anche centinaia di migliaia di persone scendono in strada per una processione a lume di candela. Dimostrazioni di questa sorta sono vietate nelle città cinesi, naturalmente. Così i cittadini di Hong Kong sono ben consapevoli che i loro appelli alla libertà e alla giustizia possono essere repressi con la violenza. In effetti, decine di migliaia di militari sono stati concentrati al confine di Hong Kong, a Shenzhen, pronti a marciare nella città in ogni momento per “ripristinare l’ordine”. Eppure la gente di Hong Kong continua a manifestare.
Nel suo ultimo saggio, The Bully of Asia, lei descrive il principio cinese della “grande unificazione”. E’ compatibile con quello “un Paese, due sistemi” che finora ha regolato i rapporti con Hong Kong?
L’aspirazione della Cina al dominio mondiale è assolutamente incompatibile con il principio “un Paese, due sistemi”. E’ in effetti così incompatibile che nel 2017 la Cina ha stracciato l’accordo con i britannici che garantiva un sistema separato di Hong Kong. Ora sopravvive solo una parvenza di autonomia ed è precisamente per questo che la gente di Hong Kong sta protestando.
Non solo Hong Kong, ma anche Taiwan sta aspettando una soluzione. Rischia di fare la stessa fine?
Xi Jinping vuole riunificare Taiwan entro la fine del suo secondo mandato, dunque entro il 2022 e poi sfruttare il successo che ne seguirebbe per assicurarsi un terzo mandato. Ma per invadere Taiwan, la Cina dovrebbe anche neutralizzare la Settima Flotta statunitense, invadere il territorio di Taiwan con un esercito imponente, probabilmente anche un milione di uomini. Anche in quel caso, il conflitto potrebbe durare mesi, con morti nell’ordine delle centinaia di migliaia, soprattutto fra i civili. Considerando il riarmo statunitense, a lungo atteso, avviato da Donald Trump e le recenti vendite di armi a Taiwan, non penso che la Cina possa rischiare un’azione simile.
La ribellione di Hong Kong viene spesso considerata come un’azione disperata e destinata alla sconfitta per mano della grande Cina. I manifestanti possono vincere la loro lotta?
Pechino è consapevole che un massacro sotto gli occhi di tutto il mondo distruggerebbe Hong Kong come centro finanziario internazionale. Gli investitori fuggirebbero da Hong Kong, i prezzi degli immobili crollerebbero e migliaia di miliardi di dollari sparirebbero di colpo, compresi fior di miliardi che funzionari comunisti corrotti hanno investito lì. In questo caso gli sforzi cinesi di espandere la propria influenza all’estero arretrerebbe di una generazione e l’economia cinese, nel suo insieme, ne soffrirebbe. Noi sappiamo che il Partito Comunista Cinese non esita a internare, torturare e uccidere i suoi oppositori politici, compresi i dimostranti di Hong Kong. Ma con una repressione, come dice un proverbio di origine cinese, solleverebbero una pietra per tirarsela sui piedi. Dunque, almeno per il momento, a meno che la rivolta non si estenda ad altre città della Cina, il Partito si limiterà ad attendere.