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IN MEMORIA

Himmelfarb, la via conservatrice alla modernità

La storica statunitense Gertrude Himmelfarb, recentemente scomparsa, è una delle principali esponenti della corrente dei neoconservatori. I suoi studi sono di fondamentale importanza per comprendere la storia della modernità, fuori dai luoghi comuni giacobini. La modernità non è, infatti, monopolio degli illuministi.

Cultura 14_01_2020
La Londra di epoca vittoriana, oggetto di studio della Himmelfarb

Non è infrequente assistere alla facile, e semplicistica, sovrapposizione fra modernità (un atteggiamento culturale, una mentalità, una ideologia), evo moderno (un tempo storico) e modernizzazione (il progresso tecnologico). Ma ridurre l’una all’altra significa ridicolmente affermare che tutto quanto è moderno sia ideologico, arrendendosi all’idea, falsa, che il progresso sia figlio della modernità (lo è invece del cristianesimo) e sostenendo, ancor più ridicolmente, che nell’epoca moderna non sia possibile un’alternativa culturale alla modernità.

Un antidoto efficace a questo cortocircuito (dozzinale quanto si vuole, ma diffuso più di quanto s’immagini) è uno studio del 2004 intitolato The Roads to Modernity: The British, French, and American Enlightenments. L’autrice, la storica statunitense Gertrude Himmelfarb (1922-2019), affronta la questione partendo dalla radice. Se la modernità ideologica è quella che per esempio (eminente) il filosofo cattolico Augusto del Noce (1910-1989) ‒ di cui è appena ricorso, nel silenzio, il trentennale della scomparsa ‒ descrive come «epoca della secolarizzazione», sua origine e suo emblema è certamente l’Illuminismo. Ma, dice la Himmelfarb, si fa presto a dire «Illuminismo». Torna qui alla mente l’accademico statunitense Peter J. Stanlis (1920-2011), il più importante studioso del pensatore e uomo politico angloirlandese Edmund Burke (1729-1797), quando stigmatizzava il malcostume (diffuso anche ai piani alti della cultura) di definire “illuminista” tutto quanto è settecentesco come se illuministi lo si sia anzitutto per ragioni anagrafiche.

La Himmelfarb non distingue però puerilmente tra un “illuminismo buono” e un “illuminismo cattivo”, ma provoca affermando che il termine (ideologicamente) passepartout “illuminismo” celi realtà molto diverse. O addirittura antitetiche quanto lo sono la temperie che ha generato, più o meno direttamente, la Rivoluzione giacobina del 1789 (e tutto quanto da esse è nato) e l’“altro Settecento” ‒ per parafrasare Due costituenti settecentesche. Note sulla Convenzione di Filadelfia e sull’Assemblea nazionale francese (1959) dello storico Alberto Acquarone (1930-1985) ‒, ovvero la tradizione angloamericana culminata nel Founding statunitense. Da un lato, insomma, l’illuminismo del totalitarismo e dell’anticristianesimo militante, dall’altra ‒ come osserva il francese Alexis de Tocqueville (1805-1859) ne la Democrazia in America (1835 e 1840), lui che conosceva bene l’argomento visto che scriverà pure L’antico regime e le rivoluzioni (1856) ‒ quello della libertà e della religione, una visione ben sunteggiata dal pensiero rivolto da John Adams (1735-1826), il secondo presidente degli Stati Uniti, in un messaggio inviato l’11 ottobre 1798 agli ufficiali della prima Brigata della Terza Divisione della Milizia del Massachusetts: «La nostra Costituzione è stata fatta solo per un popolo morale e religioso. Essa è del tutto inadeguata al governo di qualsiasi altro tipo di popolo». Riflessioni non distanti da quelle della Himmelfarb sono del resto state fatte proprie da Papa Benedetto XVI.

Ora, la Himmelfarb è scomparsa il 30 dicembre all’età di 97 anni. Era la vedova di Irving Kristol (1920-2009), il padrino riconosciuto e orgoglioso dei neoconservatori statunitensi, e la madre di William Kristol, il più noto esponente della “seconda (o terza?) generazione” dei neocon, fondatore (nel 1995) e a lungo direttore (sino al 2016) di The Weekly Standard, la “bibbia” del “nuovo neoconservatorismo”, che però, essendo stato improvvisamente dismesso nel dicembre 2018, un po’ per le sue posizioni antitrumpiane un po’ perché l’editore (il Clarity Media Group) ha puntato su un altro periodico della casa, The Washington Examiner, più possibilista verso la Casa Bianca, dimostra come il “complotto neocon” sia come il tarassaco dei campi: ci buffi sopra e svanisce nell’aria.

Newyokese di Brooklyn, nata in una famiglia di origine ebraiche russe, la Himmelfarb è stata una costola imprescindibile della cultura conservatrice statunitense contemporanea. Discreta, lontana dalla ribalta come si confà a un’accademica vera, non è uno dei nomi che vengono alla mente ai più quando si ragiona di questa scuola di pensiero. Eppure a lei si debbono studi definitivi. Oltre al citato The Roads to Modernity, certamente almeno Lord Acton: A Study of Conscience and Politics (1952) e On Liberty and Liberalism: The Case of John Stuart Mill (1974), e una pletora di classici rieditati.

Il suo forte era però l’epoca vittoriana, quella che crediamo di conoscere, ma che in realtà gestiamo per lo più a mezzo di caricature, come argomenta bene il giornalista britannico della BBC Matthew Sweet in Inventing the Victorians: What We Think We Know About Them and Why We’re Wrong (2001), scritto per supplicare a non gettare il bambino assieme all’acqua sporca. Il tema la Himmelfarb lo ha analizzato in monografie decisive quali Victorian Minds (1968), Marriage and Morals Among the Victorians (1986), The De-Moralization of Society: From Victorian Virtues to Modern Values (1995), infine incrociandolo con il concetto chiave appunto di modernità in Past and Present: The Challenges of Modernity, from the Pre-Victorians to the Postmodernists (2017).

Il saggio Poverty and Compassion: The Moral Imagination of the Late Victorians (1991) ha quindi introdotto, nello studiare i vittoriani la «moral imagination», un criterio clou cesellato da quel Burke spesso scambiato per illuminista solo perché vissuto nel Settecento, per poi passare a una filiera di spiriti magni che lo storico statunitense delle idee Russell Kirk (1918-1994) ha descritto e il poeta angloamericano T.S. Eliot (1888-1965) sublimato. È l’idea di una intuizione creativa capace di discernere (quasi per connaturalità) le verità morali così da (cor)rispondere adeguatamente alle sfide etiche. Feature tipico dell’uomo che coltiva le virtù, si può (e deve) coltivare. La Himmelfarb ne fu tanto intrigata da tornarci con The Moral Imagination: From Edmund Burke to Lionel Trilling (2006).

Nel suo “vittorianesimo” riscoperto, ricuperato e salvato (anche da se stesso), la Himmelfarb vedeva il resto di una morale (cristiana) sbertucciata oggi come moralismo soprattutto in odio al suo essere retaggio cristiano. Ciò che la studiosa ha dissotterrato dalla crosta della critica giacobina sono quindi stati concetti démodé come la prudenza, la temperanza, la responsabilità personale e persino (osò dirlo) la castità. E fu come avere dissotterrato l’ascia di guerra. Il libertinismo liberal (e nel Settecento illuminista il libertinismo è, prim’ancora che sessuolatria conclamata, un modo ateistico del pensiero) non l’ha perdonata, soprattutto quanto la Himmelfarb si è fatta avvocato di un ritorno di questi valori ‒ lei li chiamava virtù ‒ sulla scena pubblica americana, persino in politica. Se un briciolo di lei vive nel figlio William, per forza la rotta di quest’ultimo è entrata in collisione con quella di Trump.

Come che sia, con la Himmelfarb se ne va un gigante del pensiero che si continuerà a studiare e a sviscerare per decenni. Ha aperto una strada che va percorsa con grazia e intelletto d’amore. Come quando, con il suo Darwin and the Darwinian Revolution (1959) abbatté in una sola bordata il falso mito della «selezione naturale» casuale, altro pilastro dell’“illuminismo cattivo”.