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IN MEMORIAM

Peter J. Stanlis, la legge naturale come fondamento

Restituendoci il volto autentico del pensatore angloirlandese Edmund Burke, ha certificato la differenza
tra Stati Uniti e Rivoluzione francese.

Cultura 10_09_2011
Peter J. Stanlis (1919-2011)

 

Il 18 luglio è scomparso, a poco meno di 92 anni, Peter John Stanlis, uno dei massimi studiosi statunitensi contemporanei, raffinato intellettuale cattolico, tra i più importanti pionieri di quello che è stato definito movimento conservatore americano.

Nato a Newark, nel New Jersey, il 12 agosto 1919, Stanlis si diploma in Lettere nel 1942 e, dopo il servizio militare in aviazione, nel 1944 si laurea nella stessa disciplina alla Bread Loaf School of English del Middlebury College, nel Vermont, dove è allievo di alcuni "New Critics", ovvero la scuola di critica letteraria a cui prese parte anche Thomas Stearns Eliot (1888-1965), in particolare di John Crowe Ransom (1888-1974) e di Donald Grady Davidson (1893-1968), due fra i principali "nuovi sudisti". Su di lui esercita poi una decisiva influenza estetica, poetica e letteraria il poeta Robert Lee Frost (1874-1963), che pure lo indirizza all’Università del Michigan di Ann Arbor. Qui Stanlis consegue il dottorato nel 1951. Docente d'Inglese e di materie umanistiche in numerosi atenei, per diciotto anni insegna al Rockford College, a Rockford, nell'Illinois, dove dal 1968 al 1974 è direttore del Dipartimento di Inglese e, da quella data, Distinguished Professor of Humanities. Sensibile alla filosofia politica degli "States' Rights", articolazione statunitense del principio di sussidiarietà, Stanlis è membro del consiglio cittadino di Trenton, nel Michigan, dal 1955 al 1961, nonché membro - nominato per il 1961 e il 1962 - della Michigan Constitutional Revision Commission, la commissione incaricata della revisione del testo costituzionale dell'omonimo Stato. Nel 1982, il presidente Ronald W. Reagan (1911-2004) lo nomina, per sei anni, membro del National Council for the Humanities.
Di questa lunga e significativa carriera due sono i fulcri centrali: il pensatore angloirlandese Edmund Burke (1729-1797) e il citato poeta Frost. Di entrambi - in controtendenza rispetto agli stilemi accademici del mondo anglofono e prima di chiunque altro - Stanlis mette in evidenza l’indole anti-illuminista e la matrice non razionalista, quindi, sebbene a diverso titolo, il debito nei confronti della cultura cristiana.

Certo, l’attenzione che Stanlis dedica a Frost può essere sembrata ad alcuni una sorta di serio divertissment, quasi una ricreazione rispetto ad altri studi di storia del pensiero, ma ripetere oggi questo giudizio sarebbe inadeguato e ingeneroso. A dimostrarlo senza più dubbi sta infatti la monumentale opera Robert Frost: The Poet as Philosopher (ISI Books, Wilmington [Delaware] 2007), culmine di una riflessione durata un sessantennio - e  fondata sulla frequentazione personale del poeta - a cui negli ultimi anni di vita Stanlis era voluto tornare con acribia per mantenere una promessa fatta in gioventù: scrivere su Frost il più bel libro di sempre. E così, grazie a un intelletto d’amore che dovrebbe essere la costante e che invece è purtroppo rara avis in certo mondo accademico, quel poeta nordamericano troppo spesso presentato come alfiere di un naturalismo di fatto nichilistico è stato finalmente "vendicato".

 

1. Al cuore dell’identità conservatrice
La fama di Stanlis è però senz’altro legata al nome di Edmund Burke.
A lungo il pensiero del parlamentare irlandese - il "filosofo in azione" nato a Dublino e attivo per 29 anni a Westminster - à stato interpretato come una sorta di liberalismo positivista incline all’utilitarismo. E così Burke, oltre che venire contrabbandato per quel campione del progressismo materialistico che mai è stato, veniva pure accusato di contradditorietà: chi ne salutava infatti con favore, poiché "liberali", le battaglie parlamentari a difesa dei diritti conculcati dei coloni britannici dell’America Settentrionale (che per ciò si rivoltarono alla madrepatria giungendo fino all’indipendenza e dando vita agli Stati Uniti d’America), ne bollava come "reazionarie" - vuoi per un "colpo di senilità", vuoi per partigianerie di basso cabotaggio - le invettive sempre più serrate contro i rivoluzionari “liberali” che in Francia, a partire dal 1789, sovvertirono il governo, scempiarono la società, perseguitarono la Chiesa cattolica.

Ma codesta tradizione accademica - più che altro un luogo comune avanzante per inerzia - iniziò a incepparsi nel 1953 con la pubblicazione di The Conservative Mind: From Burke to Santayana  dello storico statunitense delle idee Russell Kirk (1918-1994), opera poi ampliata e riveduta fino alla settima edizione postuma uscita nel 1993 con il titolo  The Conservative Mind: From Burke To Eliot (Regnery, Washington) e arricchita dal saggio intrpoduttivo The Making of “The Conservative Mind dell’editore Henry Regnery (1912-1996).

È infatti con questo testo ponderoso - oggi una vera e propria "bibbia" - che prese slancio quello che negli Stati Uniti sarebbe stato poi definito - in senso principalmente culturale - "movimento conservatore"; e quella "macchina" Kirk l’avviò inanellando una lunga filiera di pensiero antigiacobino e antimodernistico che, sulle due sponde dell’Atlantico, Regno Unito e Stati Uniti, manteneva desta e feconda lungo due secoli proprio l’eredità di Burke. In particolare - come Kirk avrebbe poi approfondito in opere successive -, la grande chiave di volta, burkeana, della tradizione conservatrice fu la lettura della nascita degli Stati Uniti - la cosiddetta "rivoluzione americana" (1775-1783) - come positivamente antitetica - non solo cioè diversa - alla rivoluzione di Francia del 1789.

La pubblicazione dell’opera di Kirk intercettò immediatamente la sensibilità del giovane Stanlis e fu così che i due inaugurarono un scambio intellettuale sfociato in amicizia personale e in sodalizio culturale. Del resto, da quella metà degli anni Cinquanta in poi, il binomio Kirk-Stanlis è stato una costante. Di fronte all’importante intuizione kirkiana, infatti, Stanlis mise presto a disposizione uno studio che, se il dirlo non fosse equivoco, andrebbe certamente definito "rivoluzionario". Il suo Edmund Burke and the Natural Law, uscito nel 1958 per i tipi della University of Michigan Press di Ann Arbor, coronamento di dotte ricerche universitarie fondate sull’analisi capillare dell’enorme messe di scritti burkeani sintomaticamente poco frequentati da altri accademici, fornì infatti una prova d’appoggio decisiva all’intera tesi kirkiana, divenendo l’insuperata certificazione di qualità del nascente movimento conservatore la cui principale ragion d’essere era - ed è - la ricerca e la difesa dell’identità culturale classico-cristiana degli Stati Uniti.

 

2. Il diritto naturale contro le ideologie
A Stanlis, che certo non fu solo la spalla di Kirk, si deve cioè la "pezza d’appoggio" di una tradizione culturale sicura di sé ma non per questo meno bisognosa di conferme reali, non fosse altro per il fatto che sfidava - e sfida - interpretazioni così radicate da costituire pregiudizi ormai inveterati.

Se alla base dell’intero conservatorismo contemporaneo statunitense vi è cioè l’anti-illuminismo del cattolico Kirk, il fondamento scientifico di esso si deve al cattolico Stanlis che è stato capace di restituire finalmente al mondo il volto autentico dell’anglicano "cattolicizzante" Burke: quello di campione del diritto naturale aristotelico-cristiano certamente contro l’ideologia illuministico-giacobina madre di tutte le ideologie materialistiche e atee, ma soprattutto per quei "princìpi non negoziabili" impossibili da non declinare anche nel vivere sociale e politico. A questa voce va dunque rubricata ogni e qualunque considerazione ulteriore sul conservatorismo americano.

Oltre al fondamentale Edmund Burke and the Natural Law, di Stanlis vale dunque la pena di ricordare almeno la curatela di due decisive raccolte di saggi. The Relevance of Edmund Burke (Kenedy & Sons, New York 1964) ed Edmund Burke, the Enlightenment and the Modern World (University of Detroit Press, Detroit 1967); quindi il definitivo Edmund Burke: the Enlightenment and Revolution con premessa di Kirk (Transaction, New Bruswick, New Jersey 1991); poi l’antologia Edmund Burke: Selected Writings and Speeches (Doubleday, New York 1963) con introduzione e note a cura sua,  - opera più volte ripubblicata da editori vari e con titoli diversi fino all’edizione più recente, Edmund Burke: Essential Works and Speeches (Transaction, New Brunswick [New Jersey] 2006), imprescindibile per approcciare concretamente e non teoricamente il pensatore angloirlandese, soprattutto in assenza, ancora, di una sua opera omnia con adeguati apparati critici -; dunque il prezioso repertorio (curato con Clara I. Gandy) Edmund Burke: A Bibliography of Secondary Studies to 1982 (premessa di William B. Todd [1919-2011, Garland, New York e Londra 1983); e infine il periodico, fondato dal 1953 e diretto fino dal 1973, The Burke Newsletter, evolutosi in Studies in Burke and His Times.

Stanlis era un omone altro, occhi limpidi come il cielo, chioma che chi lo ha conosciuto solo in età avanzata, oramai imbiancato come un sontuoso Gandalf del pensiero contemporaneo, era autorizzato a presumere in origine chiarissima. Di ascendenze lituane, amabile come un dotto nonno, buongustaio, viaggiatore entusiasta e spirito sportivo, è stato uno eroe del pensiero forte del secolo XX. Diversi suoi scritti sono stati tradotti all’estero e, nelle note autobiografiche, Stanlis non mancava generosamente mai di ricordare pure quelle in italiano. In realtà, poco esiste di suo nella nostra lingua, ma evidentemente quel poco era per lo stesso Stanlis di valore, al che ha senso rimandarvi ancora il lettore. Il periodico Cristianità pubblicò infatti nel 1997 tre suoi saggi - Edmund Burke (1729-1797) e il giusnaturalismo classico; Rivoluzione francese, democrazia moderna e Repubblica nordamericana; e Conservatori e neoconservatori negli Stati Uniti d'America: da Edmund Burke a John Locke - frutto della sistemazione autorizzata di una intervista-fiume rilasciata da Stanlis al sottoscritto nel Michigan di Kirk nel 1992 e tra l’altro ampiamente influenti sul modo in cui, sempre il sottoscritto, ha curato la traduzione di una delle opere fondamentali - certamente la più nota - di Burke, scritta a difesa dell’Europa cristiana contro l’aggressione ideologico-ateistica, pietra angolare del pensiero conservatore e della tradizione contro-rivoluzionaria, vale a dire Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia (Ideazione, Roma 1998).