Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Francesco Saverio a cura di Ermes Dovico
1923-2023

Henry Kissinger, l'uomo del Novecento

Ascolta la versione audio dell'articolo

Henry Kissinger, morto il 29 novembre all'età di 100 anni, ha incarnato meglio di altri lo spirito del Novecento, guidando la politica estera della prima potenza del mondo. Un approccio anti-ideologico e pragmatico che anche oggi serve di esempio.

Cultura 01_12_2023
Henry Kissinger (La Presse)

È stato lui il vero “uomo del secolo”. Dove il secolo è il Novecento, da lui attraversato in tutte le sue contraddizioni, e nel quale ha incarnato, in un periodo cruciale, il potere della principale superpotenza, quando ha esercitato la carica di Consigliere per la sicurezza nazionale e poi di Segretario di Stato sotto l'amministrazione repubblicana di Richard Nixon e di Gerald Ford.

Agli occhi dei suoi contemporanei e dei posteri Henry Kissinger, morto il 29 novembre all'età particolarmente longeva e simbolica di 100 anni, rimarrà la sintesi della politica estera realista degli Stati Uniti nel grande gioco di potere mondiale della guerra fredda, e il massimo teorico di quella strategia. Per questo egli ha avuto in sorte, oltre alla centralità politica e culturale, il destino di essere costantemente denigrato e disprezzato sia da parte di coloro che hanno demonizzato l'”imperialismo” americano (simpatizzando in genere invece per i nemici dell'Occidente, dal comunismo al terzomondismo, fino al fondamentalismo islamico), sia, all'opposto, da parte di coloro che hanno preteso di difendere un Occidente “buono”, moralmente superiore rispetto all'asserito “cinismo” della politica kissingeriana, portatore di “diritti umani”, di ordine e di democrazia nel mondo: come gli intellettuali “neo-con”, progressisti convertiti a un liberalismo d'assalto, ispiratori dell'amministrazione Bush jr negli anni Duemila, e come i progressisti globalisti Dem degli ultimi decenni.

Kissinger riassume nella sua biografia le grandi sfide e i grandi mutamenti del Novecento già dalla sua giovinezza: ebreo tedesco fuggito giovanissmo in America per sfuggire alla persecuzione nazista, poi soldato e operatore nell'intelligence statunitense durante la Seconda Guerra Mondiale, poi consigliere dell'esercito angloamericano nella Germania occupata, poi laureato a Harvard e rappresentante della nuova generazione della Scienza Politica e delle Relazioni Internazionali nel dopoguerra.

In particolare è il suo libro Nuclear weapons and foreign policy, publicato nel 1958, a proiettarlo dalla dimensione accademica a quella del dibattito politico. Consulente del governatore di New York, Nelson Rockefeller, dopo l'ennesimo tentativo fallito di quest'ultimo di conquistare la nomination del Partito repubblicano alle elezioni presidenziali e l'elezione di Nixon alla Casa Bianca nel 1968, viene inaspettatamente reclutato da quest'ultimo come consigliere, in un momento traumatico in cui gli Stati Uniti si trovano immersi fino al collo nel pantano della guerra del Vietnam e in una situazione di stallo della Guerra Fredda, con di fronte sia l'aggressiva Unione Sovietica di Breznev che l'altrettanto inquietante Cina popolare maoista della “rivoluzione culturale”, nella caotica evoluzione dei conflitti nel Sud del mondo.

Negli anni successivi Kissinger diviene la mente della strategia adottata dagli Stati Uniti per venire a capo di questo complesso rompicapo: una strategia rigorosamente realista fondata sull'equilibrio, nutrita dai suoi studi sul sistema europeo delle potenze nell'Ottocento e dalla sua convinzione che, tanto più nell'epoca atomica, più che un approccio ideologico (come quello della dottrina del “contenimento” di Truman) servisse agli interessi statunitensi e occidentali una visione pragmatica, in cui la deterrenza militare e la diplomazia si integrassero virtuosamente per garantire il più possibile la stabilità attraverso un consolidamento dell'assetto bipolare mondiale.

A partire da tale visione, egli si impegna strenuamente per trovare una exit strategy per la partecipazione americana al conflitto vietnamita attraverso serrate trattative con il Vietnam del Nord e con l'Urss, che gli valgono nel 1973 un Premio Nobel per la pace da più parti assai contestato; e per spegnere diplomaticamente il nuovo conflitto arabo-israeliano del Kippur. Ma contemporaneamente costruisce un geniale diversivo strategico, con la tessitura di un inatteso riavvicinamento tra Stati Uniti e la Cina, concretizzatosi in due visite del Segretario di Stato a Pechino e poi nell'incontro ufficiale tra Nixon e Mao nel 1972. Una manovra che suscitava nella dirigenza sovietica un'ansia di accerchiamento, e favoriva per converso tra le due superpotenze le spinte verso la “distensione”.

In base alla stessa logica di realismo geopolitico, Kissinger e l'amministrazione Nixon negli anni Settanta fanno muro, alla luce del grave smacco subito con l'avvento del castrismo a Cuba, contro ogni focolaio di possibile espansione del comunismo in America Latina, favorendo tutte le forze interne ai paesi sudamericani che potessero contrastare quella pericolosa prospettiva nel “giardino” allargato di casa. Una politica che vede il suo momento più drammatico e controverso nella campagna di boicottaggio prima, e nel rovesciamento poi, con il golpe del generale Pinochet, del governo delle sinistre guidato da Salvador Allende in Cile.

La stagione della presidenza Reagan, animata da un rinnovato slancio ideologico alla contrapposizione all'”impero del male” sovietico, non poteva certo accogliere favorevolmente l'eredità del realismo kissingeriano, pur non distaccandosi di molto, nei fatti, dalle sue modalità di applicazione della deterrenza, e pur sfociando, dall'avvento di Gorbaciov in poi, in una nuova stagione diplomatica di “distensione”, superata soltanto dal collasso interno dell'impero sovietico nel 1989-1991. Men che meno poteva dichiararsi “kissingeriana”, nel clima di euforia occidentale post-guerra fredda, l'amministrazione Clinton, con la sua idea di un unipolarismo globalista statunitense sorretto dalla retorica dei “diritti umani”. E, soprattutto, dopo l'attacco dell'11 settembre, non poteva esserlo la già citata nuova linea interventista della war on terror di George W. Bush e dei suoi consiglieri “neo-con”; così come anche successivamente l'approccio muscolare alla politica estera che avrebbe unito apparati del deep state e classe dirigente del Partito democratico (in primis Hillary Clinton).

Tuttavia, per altro verso, l'emergere di un assetto di potenza mondiale sempre più frammentato e conflittuale nei primi decenni del XXI Secolo ha contribuito in misura crescente a far tornare d'attualità la scuola realistica delle relazioni internazionali, l'attenzione alla dimensione geopolitica, l'idea dell'uso della deterrenza ai fini della ricostituzione di un equilibrio di sistema complessivo, la constatazione degli effetti controproducenti  di un sovraccarico ideologico ed eticizzante nella politica estera.

Non è un caso che negli ultimi anni della sua vita, Kissinger sia  tornato nuovamente al centro dell'attenzione politica e intellettuale in Occidente, e non solo. E non è un caso che sulla questione dei rapporti degli Stati Uniti con la Russia (in particolare sulla guerra in Ucraina) e con la Cina egli abbia preso posizioni decisamente critiche verso la linea fortemente polarizzante impressa dall'amministrazione Biden.