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Halal akbar, così la mezzaluna conquista il mercato francese

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L'etichetta islamicamente corretta avanza negli scaffali di tutta la Francia e non comprende più solo cibi e bevande ma si estende persino ai beni di lusso. Un balzo del 118% in 15 anni per un comparto da 7 miliardi di fatturato che marca il territorio e finanzia il mondo islamico europeo.

Attualità 13_12_2025
LaPresse (Ludovic Marin/Pool via AP)

Nel 2005, quando a Clichy-sous-Bois, nel piccolo comune nel dipartimento della Senna-Saint-Denis, aprì Beurger (Beur è un termine gergale francese per la seconda generazione di nordafricani che vivono in Francia) King Muslim, un fast food dall’estetica americana ma dal menu, gli orari e l’abbigliamento, rigorosamente halal, la notizia fece il giro del mondo. Se ne occuparono persino il Washington Post e il New York Times. La popolazione francese iniziò a farsi qualche domanda. Ma niente di più. Anche perché, nel frattempo, nel comune di Roubaix, al confine con il Belgio, c’erano già otto ristoranti che stavano sperimentando un menu interamente halal. Fu presto chiaro che non si trattava più di un episodio isolato, ma del segnale di una trasformazione profonda.

Era l’inizio della normalizzazione del halal come parte integrante dell’economia e della quotidianità francesi. I ristoranti, i fast food, le macellerie e i negozi generici halal si moltiplicavano a dismisura in Francia cambiando definitivamente il paesaggio urbano. E nel 2010 il giro d’affari del settore alimentare halal raggiungeva già i 5,5 miliardi di euro, un miliardo dei quali provenienti dal solo mondo fast food, in un Paese che ospitava, allora, circa 5 milioni di musulmani. 

Una storia che racconta molto più del cibo che serve. Basti pensare che ad ottobre, sei ristoranti francesi della nota catena americana di hamburger, Five Guys — tra cui quello di Parigi — sono passati alla carne halal e stanno eliminando l’alcool dai loro menu. O che Hmarket, la catena 100% halal, nata nel 2006, con una missione ambiziosa — riposizionare il mercato alimentare islamico offrendo qualità, prezzi accessibili e un dichiarato impegno sociale —, oggi conta 22 negozi tra Francia e Belgio, e serve 33.000 clienti al giorno. Esistono applicazioni che come MyHallal aiutano i musulmani a trovare macellerie, minimarket e ristoranti, identificando persino quelli con uno “spazio di preghiera”.

Vivere halal — in arabo permesso — non è un obbligo religioso dell’islam. Nel Corano è una pratica circoscritta alla carne di maiale e il testo islamico autorizza, finanche, i musulmani a mangiare il cibo degli ebrei e dei cristiani, quindi non prevede in alcun modo un sistema di certificazione halal come esiste oggi. La storia delle “etichette etiche” nasce dopo il 1979. Quando l’Iran viene conquistato da Khomeini, e nella foga di islamizzare il Paese dopo il governo occidentale dello Scià, improvvisa una autarchia dei generi alimentari, sfiora una carestia, riapre, poi, al mercato estero, ma a una condizione: il regime invierà delle delegazioni religiose nei mattatoi per controllare la macellazione. L’Iran sciita emette, così, il bollino di cosa è lecito e cosa non lo è. E con i giuristi sciiti inventa ufficialmente l’etichettatura halal.

La mossa sconvolge il mercato globale della carne e costringe l’islam sunnita, fino a quel momento, assolutamente disinteressato all’argomento, a reagire per non lasciare agli sciiti il controllo dello standard. Halal adesso deve, allora, riguardare, qualsiasi cosa. S’avvia così  un meccanismo che arriva fino ai giorni nostri e che si manifesta dapprima nelle macellerie improvvisate delle banlieue, per poi estendersi a tutti i prodotti di largo consumo e persino ai beni di lusso. L’immigrazione islamica fa il resto.

La Francia, con la sua vasta popolazione, diventa un laboratorio. E l’esigenza di disporre di negozi certificati halal diventa un modo per delimitare uno spazio identitario e territoriale che non deve mischiarsi con quello della République. Oggi quella che appare come una vittoria culturale dell’islam in Francia è sancita da un dato difficilmente contestabile: ogni prodotto di consumo quotidiano esiste in versione islamicamente corretta e nessun grande distributore si sottrae alla corsa a pubblicare il proprio catalogo speciale per il Ramadan.

Trent’anni dopo, l’etichetta halal ha toccato qualsiasi cosa e le moschee ne hanno fatto una bandiera religiosa: hanno lanciato applicazioni che insegnano come l’adesione all’halal consenta di accumulare buone azioni (hasanat) in un personale “conto religioso”, destinato a garantire l’accesso al paradiso. Ma, soprattutto, il bipolarismo tra la cultura del capitalismo occidentale e l’islamismo risulta ormai del tutto superato.

Quindi ecco che Carrefour, per esempio, ha appena acquisito il 10 per cento del capitale dell’insegna Hmarket con un’operazione da 10 milioni di euro. Non si tratta semplicemente di aver fiutato un buon affare, ma della necessità di rispondere a una legge elementare, quella della domanda e dell’offerta. La Francia è cambiata e, con essa, è cambiato il suo mercato: la presenza ampia e strutturata di una popolazione islamica ha ridefinito i consumi, orientato le strategie della grande distribuzione e inciso in profondità sulle dinamiche dell’economia nazionale.

Nel 2020 Parigi ha ospitato la prima Halal Franchise Expo, segno che il settore non è più una nicchia ma un segmento maturo, capace di attrarre investitori e creare reti. Il mercato halal in Francia oggi abbraccia 10 milioni di potenziali consumatori. Secondo un sondaggio Ifop per l’Express, pubblicato a fine 2020, il 67% dei musulmani sceglie carne halal sempre e un altro 15% quasi sempre. Anche il resto del paniere si adegua: dessert, cioccolatini e caramelle halal sono passati dal 40% del 2010 al 68% del 2020, una crescita trainata dalle generazioni più giovani, come osserva il politologo Jérôme Fourquet. 

Con un’espansione annua del 15%, il comparto halal supera oggi i 7 miliardi di euro di fatturato, il doppio del biologico e le stime raccontano che, entro un anno, si arriverà ai 12 miliardi. Con un aumento del 118% in quindici anni, questo dinamismo colloca la Francia al secondo posto nel mondo, dopo la Malesia.
A livello globale il comparto halal vale oltre 2 trilioni di dollari e serve un bacino di 2,2 miliardi di consumatori. Gli analisti prevedono che, entro il 2030, la spesa mondiale possa sfiorare i 10 trilioni, una crescita che non sembra conoscere gravità. Ma ciò che sorprende non è soltanto la curva economica, come dicevamo, ma l’ampiezza dell’universo halal, ormai esteso ben oltre alimenti e bevande. Cosmetici, farmaci, moda, turismo, finanza: un vero e proprio ecosistema transnazionale, che avanza ridefinendo intere filiere produttive e modelli di consumo.

Ma non è tutto qui. Il mercato islamico finanzia a sua volta il mondo islamico in Europa. Hmarket in Francia promette, per esempio, di donare 10 euro del prezzo dell’agnello dell’Eid ad una moschea nel Paese. Halal è economia etica islamica. Halal è separazione. Ma il confine ormai è liquido. E silenzioso tra gli scaffali avanza inarrestabile.



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