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IL DUECENTO/ 10

Guido Cavalcanti, il miglior amico di Dante in gioventù

Nella Vita Nova, dopo aver incontrato per la seconda volta Beatrice all’età di diciott’anni, Dante ha un sogno che racconta nel sonetto A ciascun’alma presa. Alla poesia rispondono in tanti. Tra questi anche Guido Cavalcanti, che inizia con lui un rapporto di amicizia divenendo ben presto il primo dei suoi amici.

Cultura 20_12_2015
Guido Cavalcanti

Nella Vita Nova, dopo aver incontrato per la seconda volta Beatrice all’età di diciott’anni, Dante ha un sogno che racconta nel sonetto A ciascun’alma presa. Alla poesia rispondono in tanti. Tra questi anche Guido Cavalcanti, che inizia con lui un rapporto di amicizia divenendo ben presto il primo dei suoi amici. Per quanto le date abbiano nell’opera un valore simbolico e sacrale, l’affermazione dantesca è, senz’altro, attestazione dell’affetto che l’Alighieri nutre in gioventù per il poeta poco maggiore di lui per età. Del resto, anche il sonetto dantesco Guido, i’ vorrei che tu e Lapo e io è un’ulteriore comprova del sodalizio amicale che lega i due poeti.

Figlio di Cavalcante de Cavalcanti, nato a Firenze nel 1259 o 1260, Guido sposa Bice degli Uberti, figlia del noto Farinata, comandante dei ghibellini nella battaglia di Montaperti del 1260. La formazione letteraria e retorica si sostanzia anche con una preparazione di stampo filosofico che privilegia la conoscenza di Aristotele e, in particolar modo, della sua rilettura averroistica. Guido è acceso guelfo bianco, tanto che rimane coinvolto nei cruenti contrasti che si creano nell’ultimo decennio del Duecento. Probabilmente come rivalsa per un’aggressione in cui rimane coinvolto durante un pellegrinaggio a Santiago de Compostela, il Cavalcanti partecipa all’assalto della casa di Corso Donati. Come priore di giustizia nel bimestre maggio-luglio del 1300, Dante lo manda in esilio a Sarzana: ivi l’amico di Dante si ammala e, appena rientrato a Firenze, muore il 29 agosto 1300. 

La fama di poeta, filosofo epicureo, ateo e materialista accompagna Guido Cavalcanti fin dalle prime opere che lo vedono come protagonista fino a quelle composte più tardi. Nel canto X dell’Inferno è descritto il sesto cerchio, quello degli eretici. Le anime sono collocate in tombe scoperchiate. Poiché la Commedia è ambientata nel marzo e nell’aprile del 1300, Dante non può collocare nel cerchio l’amico Guido, che morirà nell’agosto di quell’anno. Vi colloca allora Cavalcante de’ Cavalcanti, vicino di tomba di Farinata, che con il primo sembrerebbe aver in comune solo la colpa di essere epicureo, ma con il quale è in realtà legato anche da un vincolo di parentela. I due vicini di tomba sono, infatti, consuoceri. 

Cavalcante de’ Cavalcanti vive nella memoria del figlio, orgoglioso della intelligenza e dei meriti intellettuali che Guido seppe dimostrare in vita. Pacato, discreto, con una patina di velata malinconia chiede a Dante: «Se per questo cieco/ carcere vai per altezza d’ingegno,/ mio figlio ov’è? e perché non è teco?». Il padre è convinto che esistano solo meriti umani, non sospetta che Dante, amico del figlio, possa essere in viaggio nell’aldilà per grazia in nome di una missione voluta dal Cielo. Il figlio Guido dovrebbe avere anche lui la possibilità di vedere l’Oltremondo, se si valutano i meriti umani e l’altezza d’ingegno non inferiori (a suo avviso) a quelli di Dante. Questi, però, sottolinea che l’amico Guido non volle intraprendere la strada per raggiungere la verità, sprezzando la tradizione cristiana e la fede: «Colui ch’ attende là,  per qui mi mena/ forse cui Guido vostro ebbe a disdegno». Sentendo il verbo al passato («ebbe»), non ottenendo immediata risposta da Dante alla domanda se il figlio sia ancora in vita, Cavalcante sprofonda nella tomba, rattristato e ormai convinto che la dolce luce del sole non colpisca più gli occhi di Guido che, quindi, non vive più. 

Il nome di Guido Cavalcanti ritorna ancora nella Commedia, questa volta nel canto XI del Purgatorio, dove sono descritti i superbi. Dante pone in bocca a Oderisi le sue riflessioni relative alla vanità dell’umana gloria, cui pur il poeta aveva sempre ambito in vita. La fama in Terra dura per pochi anni salvo nel caso in cui un artista di valore non sia vissuto in un’epoca cui segue un altro periodo di decadenza. Ma gli artisti che hanno prodotto le loro opere in momenti di splendore culturale rapidamente sono superati da altri più grandi, spesso i loro discepoli. Come il pittore Cimabue è stato superato dal discepolo Giotto, così Guido Guinizzelli, padre del Dolce Stil Novo, è stato superato da Guido Cavalcanti «e forse è nato/ chi l'uno e l'altro caccerà del nido» (allusione quasi certa a Dante stesso). 

I versi comprovano la stima che l’Alighieri nutre nei confronti del valore letterario della poesia del conterraneo tanto che lo considera per alcuni anni addirittura maestro da imitare. Nella prima parte della Vita Nova si percepisce il magistero sia di Guinizzelli che di Cavalcanti. Soltanto quando inizia la poetica della loda si notano ormai la decisa differenza e la specificità dei versi danteschi. Cinquant’anni dopo la sua morte, Guido Cavalcanti è ancora protagonista in uno dei capolavori nel Trecento, il Decameron del Boccaccio, già terminato nel 1350. La novella nona della sesta giornata, dedicata ai motti di spirito, lo vede al centro di una rapida vicenda ambientata a Firenze negli anni in cui vi erano ancora tante liete brigate nella città. Una di queste, capeggiata da Messer Betto Brunelleschi, cercò di cooptare al proprio interno Guido Cavalcanti, che «fu un de'migliori loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale (delle quali cose poco la brigata curava, sì fu egli leggiadrissimo e costumato e parlante uomo molto, e ogni cosa che far volle e a gentile uom pertenente, seppe meglio che altro uom fare; e con questo era ricchissimo, e a chiedere a lingua sapeva onorare cui nell'animo gli capeva che il valesse».

Un giorno i compagni della brigata videro Guido in mezzo ad alcuni sepolcri in Firenze e lo canzonarono dicendogli: «Guido tu rifiuti d'esser di nostra brigata; ma ecco, quando tu arai trovato che Iddio non sia, che avrai fatto?». Prontamente Guido rispose: «Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace». Messer Betto spiegò allora ai compagni, che non avevano compreso il motto, che Cavalcanti aveva detto loro una cortese villania, descrivendoli come morti dal momento che non dedicavano il tempo alla speculazione e all’attività intellettiva. La fama del poeta, amico di Dante e poeta ateo ed epicureo, era rimasta immutata cinquant’anni dopo la sua morte. La prossima volta vedremo come le poesie di Cavalcanti si inseriscano nell’alveo del Dolce Stil Novo, ma con decise differenze rispetto agli altri poeti della scuola.