Grillo, Renzi e Berlusconi, quei tre piccoli dittatori
A partire dal 12 novembre 2011, data della caduta del governo Berlusconi, il susseguirsi di governi tecnici o figli di manovre di palazzo ha finito per svilire il ruolo dei partiti per esaltare quello di consorterie opache e lontane dagli interessi degli italiani. Dalla destra alla sinistra, sistema partitico sta implodendo. A scapito della democrazia.
A partire dal 12 novembre 2011, data della caduta del governo Berlusconi, il susseguirsi di governi tecnici o figli di manovre di palazzo ha finito per svilire il ruolo dei partiti per esaltare quello di consorterie opache e lontane dagli interessi degli italiani. Il sistema partitico sta implodendo.
Il Pd, che pure è il partito più strutturato sul territorio, lamenta un crollo verticale degli iscritti, pur nell’incremento dei consensi elettorali. La minoranza interna rumoreggia e si agita perché teme la contrazione del numero di addetti e di impiegati nelle sedi di partito, trattandosi di personale fedele in larga misura alla vecchia guardia. Non a caso Renzi si sta creando il suo partito parallelo, la Leopolda, che riceverà investimenti per due milioni di euro in occasione dell’evento del prossimo week-end. I dipendenti di Forza Italia, che sono infinitamente meno numerosi di quelli del Pd, non prendono lo stipendio da mesi. Inutili, finora, gli appelli ai parlamentari affinché contribuiscano in modo sostanzioso destinando al partito una quota ancora maggiore del loro stipendio.
Ma a far riflettere è il decrescente tasso di democraticità interno ai partiti. Le vicende degli ultimi mesi lo confermano in maniera incontrovertibile. Nel Pd Renzi, dopo aver fatto fuori Letta senza badare troppo al galateo, ora invoca correttezza e lealtà dai suoi parlamentari in materia di fiducia al suo esecutivo. Il premier non controlla in alcun modo i gruppi parlamentari, espressione dell’area dalemiana, bersaniana e cuperliana, e quindi è costretto a porre sempre la fiducia sui provvedimenti che gli stanno a cuore, minacciando velatamente deputati e senatori di far saltare il tavolo, di accelerare il ricorso alle urne anticipate e di non ricandidarli. Tutta questa prassi non ha nulla a che fare con il funzionamento democratico di un partito, che peraltro ha la parola “democratico” anche nel nome.
Quello che accade nel Movimento Cinque Stelle è altrettanto mortificante per chi ne fa parte. Le epurazioni decise da Grillo senza alcun dibattito interno e dietro la foglia di fico di una fittizia e demagogica democrazia della Rete sono la riprova di un partito leaderistico che non coltiva in alcun modo il dialogo interno. Il caso Pizzarotti e l’insofferenza crescente verso il sindaco di Parma, reo soltanto di applicare in maniera più flessibile i principi del Movimento al fine di gestire una macchina comunale complessa e in forte crisi, documentano la mancanza di pluralismo fra le truppe grilline, dove a comandare sono Grillo e Casaleggio e i momenti di confronto servono soltanto per avallare scelte già deliberate ai piani alti. Anche l’espulsione dei quattro dissidenti saliti sul palco del Circo Massimo, decisa nei giorni scorsi da Grillo, è la spia di un malessere interno al gruppo dirigente pentastellato, sempre più in affanno nell’intercettare il voto di protesta, che sembra canalizzarsi nell’alveo della Lega di Salvini.
Nel centrodestra non ci sono segnali di maggiore democrazia interna, tutt’altro. Tra gli scissionisti alfaniani tira aria di tempesta. C’è grande malumore nei confronti della gestione di Ncd da parte del ministro dell’Interno, che non riesce a tenere unite le truppe e rischia di perdere altri pezzi dopo il ritorno alla casa berlusconiana del parlamentare siciliano D’Alì. I momenti di confronto democratico all’interno del partito scarseggiano, anche se va comunque meglio rispetto a Forza Italia, dove il verticismo raggiunge livelli parossistici.
Le sedi e i club azzurri languono, il famigerato “cerchio magico” detta da Arcore la linea politica senza alcuna condivisione delle scelte fondamentali nell’ufficio di presidenza e negli altri organi centrali e periferici del partito. Si tratta, ormai, a tutti gli effetti, di luoghi di ratifica di decisioni prese in altre sedi. Congressi annunciati e mai celebrati, insofferenza crescente di molti dirigenti locali, base disorientata e sempre più in libera uscita verso l’astensione o il voto di protesta. Senza contare che Renzi sta attraendo in misura crescente l’elettorato moderato che fino al 2008 si era orientato verso il centrodestra.
I partiti lamentano, quindi, l’emorragia inarrestabile di iscritti, ma non fanno nulla per invertire la rotta. Alcune forze politiche fanno della difesa della Costituzione un cavallo di battaglia distintivo della loro propaganda, eppure sono le prime a tradirla. L’art.49 recita, infatti, che i partiti dovrebbero concorrere con metodo democratico alla determinazione della politica nazionale. É stato più volte chiarito dai costituzionalisti che il metodo democratico non dovrebbe valere soltanto per la libera competizione elettorale tra partiti, ma anche all’interno dei singoli partiti, affinché la loro linea politica ufficiale rifletta il libero confronto democratico tra le diverse componenti e rappresenti la sintesi tra punti di vista distinti o anche contrapposti. In nessuno dei partiti tradizionali e neppure nei movimenti che si professano alternativi alla cosiddetta “casta” si scorgono limpidi e maturi esempi di democrazia interna. E per recuperare questa essenziale dimensione democratica non basterà certamente l’approvazione di una nuova legge elettorale.