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UNHRC

Gli Usa rifiutano l'ipocrisia Onu sui diritti umani

Trump di ritira (di nuovo) dal Consiglio per i diritti umani dell'Onu. Non si tratta di uno schiaffo all'impegno di chi difende i diritti umani, ma la denuncia di un organismo Onu composto da paesi che i diritti li violano tutti.

Editoriali 05_02_2025
Guterres parla all'UNHRC (La Presse)

Che cosa ha firmato, oggi, Donald Trump? Fra un ordine esecutivo che vieta agli atleti trans di competere nelle squadre femminili e un altro in cui si prevede l’espulsione di criminali statunitensi in carceri all’estero (in Salvador, peggio che nelle peggiori prigioni statunitensi), il neo-presidente ha deciso di dare seguito alla promessa di ritirare gli Usa dal Consiglio dei diritti umani dell’Onu (Unhrc).

Non si tratta di una novità assoluta, considerando che Trump stesso lo aveva già fatto nel primo mandato e il suo predecessore George W. Bush non voleva aderire, quando l’organismo Onu, con sede a Ginevra, era appena stato costituito. I motivi del ritiro ordinato da Trump sono: non aver «raggiunto il suo scopo, oltre ad essere usato come un organismo protettivo per paesi che commettono orrende violazioni dei diritti umani». Trump condanna anche il forte pregiudizio anti-Israele: «Il Consiglio per i diritti umani ha dimostrato un costante pregiudizio contro Israele, concentrandosi su di esse e in modo non proporzionato nei suoi procedimenti. Nel 2018, l’anno in cui il presidente Trump si era ritirato dall’Unhrc, nella sua prima amministrazione, l’organizzazione ha approvato più risoluzioni di condanna di Israele, rispetto a quelle spiccate contro Siria, Iran e Corea del Nord assieme». E Trump sottolinea questo aspetto proprio nel giorno in cui il premier israeliano Netanyahu si reca in visita alla Casa Bianca, primo leader straniero ad essere ricevuto.

La decisione di ritirarsi dall’Unhrc non arriva da sola, infatti: il presidente Usa ha anche firmato, contemporaneamente, l’ordine esecutivo con cui si bloccano tutti i fondi americani per l’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, sotto accusa per collusione con Hamas, al punto che suoi dipendenti hanno partecipato in prima persona al pogrom del 7 ottobre 2023, al confine con Gaza. Sicuramente la decisione di Trump di ripetere il ritiro dal Consiglio va inquadrata nella sua politica mediorientale, come un segnale di forte appoggio a Israele. Sempre ieri, Trump è anche tornato a premere sull’Iran, con un altro ordine esecutivo ancora che fissa come obiettivo quello di impedire alla Repubblica Islamica di dotarsi di armi atomiche.

Ma non è solo la politica mediorientale a interessare Trump e a determinare la sua decisione di ritirarsi ancora da Ginevra. L’obiettivo è di più ampio respiro ed è parte della tradizione repubblicana. Lo dimostra il fatto che, nonostante le forti differenze politiche e caratteriali, questa sia una delle poche politiche in continuità con Bush. Il senso del tutto è che gli Usa non devono e non possono mettersi a giocare nel terreno dei diritti umani assieme a paesi, anche molto ostili, che non li hanno mai rispettati.

Ad imbarazzare gli Usa è soprattutto la composizione del Consiglio. Fra i 15 nuovi membri eletti, entrati in carica a inizio 2024, figurano la Cina (deportazione di massa degli Uiguri, persecuzione di cristiani e musulmani, genocidio culturale in Tibet e Mongolia interna, sorveglianza di massa su tutti i cittadini, nessuna libertà politica e di espressione), Cuba (il paese comunista che resta dittatura ed è refrattario ad ogni riforma, continua a incarcerare dissidenti), oltre a paesi in cui i diritti umani sono solo in parte rispettati, come l’Indonesia e il Kuwait, entrambi paesi musulmani (benché il primo sia ufficialmente laico) in cui le minoranze hanno vita dura.

Continuano a farne parte membri già eletti, quali: Algeria (una dittatura militare, oggi tornata alla ribalta per l’arresto arbitrario dello scrittore Bouallem Sansal), il Bangladesh (radicalismo islamico e repressione politica, sia prima che dopo la rivoluzione studentesca del 2024), l’Eritrea (una delle dittature militari più repressive dell’Africa, al sesto posto nella lista di Open Doors sulla persecuzione dei cristiani), il Kazakistan e il Kirghizistan (entrambe “democrature” post-sovietiche con ben poche libertà politiche e civili), la Malesia (emarginazione e pressione sui cristiani locali), le Maldive (paradiso per i turisti, ma non per le minoranze perseguitate dall’islam), il Qatar (il maggior finanziatore del radicalismo islamico nel mondo), la Somalia (uno Stato fallito piagato dal terrorismo islamico e dalla guerra civile infinita, al secondo posto nella lista di Open Doors per persecuzione dei cristiani), Sudan (guerra civile fra due dittatori militari che si contendono il potere, un ritorno di pratiche genocide nel Darfur) e Vietnam (regime comunista repressivo).

Il problema del Consiglio per i diritti umani è nella sua stessa composizione, organizzata in quote rigide. Dei suoi 47 paesi membri, 13 devono essere eletti dall'Assemblea Generale dall’area Asia-Pacifico, 13 dall’Africa, 8 dall’America Latina, 7 del Gruppo Europeo Occidentale e 6 dall’Europa Orientale. Il problema è anche la partecipazione delle Ong, che aggiungono una forte carica ideologica ai lavori del Consiglio. Sono i Gruppi di Lavoro inerenti l’attuazione della Dichiarazione e del Programma d’Azione di Durban contro il razzismo, quella stessa conferenza in cui, nel 2001, si chiese ai paesi odierni europei di risarcire le colpe della schiavitù dei secoli scorsi e si voleva equiparare il sionismo al razzismo. Ci sono poi i Forum sulle questioni sociali, sulla democrazia e sullo stato di diritto, sui diritti delle minoranze e sulla tutela dei diritti umani, con composizioni a dir poco grottesche: l’Iran è stato eletto alla guida del Forum sociale, proprio nel 2023, anno record delle impiccagioni nella Repubblica Islamica.

Non è dunque per mancanza di rispetto dei diritti umani che gli Usa si ritirano. Ma per evitare di continuare a rendersi complici di queste ipocrisie.